Strade aperte per i giovani talenti della narrativa italiana. In questo numero, ospitiamo un racconto inedito di Davide Predosin

Con la cortesia di un maggiordomo e l’apprensione di una madre, il capostazione me lo conferma:
– Carrozza 105, sedile 2b. Le consiglio vivamente di aumentare il passo perché ci metterà un po’ e il treno parte tra meno di un’ora.
Sulla banchina si è addensata una nebbia piuttosto fredda e non si intravede neanche la coda del treno. Con me, camminano altri viaggiatori. Vorrei fare dei commenti di circostanza su questi treni chilometrici “Luceveloci” ma questi non sembrano affatto tipi da conversazione.
Indossano impermeabili corti all’ultima moda, hanno delle pettinature impeccabili ed efebiche che danno loro un aspetto sbarazzino e crudele insieme. Hanno anche entrambi gli stessi aerotrolley bianchi automatici sospesi a mezz’aria, che li seguono silenziosi e con placido moto ondulatorio.
Sembrano infastiditi dal rumore del mio idrotrolley semi automatico che purtroppo  produce un vapore acqueo diffuso con qualche saltuario e denso schizzo. Uno degli algidi manichini si sfila un fazzolettino dalla tasca della giacca e si asciuga una guancia guardandomi come si guarda un cane che ti ha pisciato sulla ruota dalla macchina. Mi scuso, lo rassicuro cercando di sorridere: – Si tratta solo di idrogeno. – Le sue strafottenti e impassibili palpebre a mezz’asta mi suggeriscono che deve proprio pensare di non appartenere affatto alla mia stessa specie.
Dopo venti minuti raggiungiamo la carrozza numero 12. Sorrido: di questo passo non ce la faremo mai. Per quanto mi riguarda, posso anche perderlo di nuovo il treno, tanto poi ti pagano l’albergo, la discoteca, il casinò, la sauna e sinceramente ieri è stata una pacchia. Questi invece sembrano intenzionati a raggiungere la carrozza a tutti i costi, aumentano il passo, si fanno sempre più torvi. Provano a salire anche su altre carrozze ma la porta non si apre se il lettore ottico non riconosce il biglietto. In realtà per ora tutte le carrozze hanno i vetri oscurati e non sembrano neanche ospitare passeggeri.
I miei compagni di viaggio hanno di sicuro un importante impegno di lavoro. Uno, il biondo, assume opercoli di sale di lisina concentrato come se fossero noccioline. Cerco di stargli dietro solo per vedere la loro faccia quando il treno partirà senza di loro.
Nel frattempo mantengo anch’io una faccia contrita; giusto perché non pensino li stia prendendo in giro,  giusto perché rispetto le  speranze altrui.
Sono le 17.42 e siamo alla carrozza numero 25, dopo, appunto, trenta minuti di cammino. Stiamo quasi correndo, ma lo sforzo non sembra comunque averci premiato come si potrebbe supporre.  Le carrozze, nonostante la nostra accelerazione, sembrano sempre più lunghe.
Controlliamo lungo la banchina i monitor su cui sono indicate partenze e informazioni per i viaggiatori: nessun ritardo annunciato.  
I miei compagni di viaggio incominciano ad avere la fronte piuttosto sudata, uno si è tolto addirittura l’impermeabile e la giacca, nonostante la nebbia sia sempre più gelata e fitta.
Incontriamo un altro membro del personale di bordo, sorridente come il suo predecessore. Il biondo, in maniche di camicia, lo punta e gli urla in faccia senza il benché minimo rispetto per la sua fragile natura robotica: – Dove cazzo è la carrozza 105?! – Il poveretto sbatte le palpebre frastornato e cerca nel database le risposte più adeguate alla domanda.
– Cercate di affrettarvi, gentili clienti, il treno parte tra 5 minuti e siete ancora piuttosto lontani dal posto assegnatovi.
Di fronte allo sfacciato per quanto robotico e candido suggerimento, l’altro, quello coi capelli neri, carica in maniera ancora più aggressiva l’attendente afferrandolo per la cravatta.  Il robot balbetta qualche altra risposta di sistema e la coppia in preda a furore incontrollato finisce per azzittirlo definitivamente a calci. Mi si stringe il cuore ma so che starà meglio di me dopo essere passato in riparazione.  

Ecco finalmente il fischio di partenza. Lungo, acuto, straziante. Come sempre, per chi non è già a bordo. Scomposti, con gli abiti ormai appiccicati addosso, un po’ per la nebbia un po’ per il vapore del mio idrotrolley, i miei nuovi amici corrono urlando, cercando di coprire in pochi secondi una distanza ancora sconosciuta e incommensurabile.
Dopo un paio d’ore, li raggiungo alla fine della banchina. Seduti come li immaginavo, sbracati, con gli aerotrolley scarichi, con sguardi vitrei e increduli.

– Signori, non prendetevela, – esordisco. – Io ci provo da una settimana a salire su questo treno. È un’epoca complessa e imperfetta in cui i prodigi della tecnica si confondono inestricabilmente con fenomeni indefiniti d’altra natura. Dal canto mio ho rinunciato a capire e finché si può, preferisco stare allegro. Permettetemi quindi di far trainare a rimorchio i vostri bagagli dalla mia umile e vetusta luggage device e di invitarvi a cena; immagino pernotterete nel mio stesso albergo. Quindi, potremo dedicarci al gioco d’azzardo, sono sicuro che questa sera saremo molto fortunati.

Così dicendo, li prendo sotto braccio, ridendo gioviale. Sono ancora piuttosto rigidi e poco reattivi ma impareranno, impareranno.