La stretta creditizia ha sottratto alle imprese 50 miliardi di liquidità. Come cambia il rapporto tra imprese e banche, e chi può approfittarne. E come dalla crisi potrebbe nascere qualcosa di buono. 

Bancocentrica. Così viene comunemente definita la finanza delle imprese italiane. Neologismo efficace per esprimere la dipendenza da un’unica fonte di approvvigionamento per il debito: le banche commerciali. Dipendenza rilevante per le imprese medio-grandi ma praticamente assoluta per le micro e piccole imprese, che da sole costituiscono il 98% del totale, e che nelle banche hanno sempre trovato abbondanti rifornimenti, almeno fino al 2010.

Questa schiavitù è destinata a ridursi, non tanto a causa dell’ingresso di capitali dalle imprese o per un salutare meccanismo concorrenziale in grado di portare i flussi degli investitori a competere con il sistema dell’intermediazione bancaria, ma piuttosto per le grandi difficoltà che il sistema bancario sta affrontando e che lo costringono ad allentare la presa monopolistica sulla finanza d’impresa. Sono dunque le banche a cedere le armi e ad abbandonare le posizioni, non il mercato a conquistarsele a colpi di offerte. Anzi, il mercato alternativo alle banche è rimasto sino ad oggi assente o disinteressato.

Cosa sta succedendo? In che modo le banche potrebbero vedere intaccato il controllo assoluto sul mercato dei finanziamenti alle imprese, un business da 45-50 miliardi di ricavi annui? Occorrerebbero pagine di spiegazioni, accontentiamoci di una sintesi in pillole di quanto accaduto negli ultimi anni:

-    la crisi finanziaria, innescatasi nel comparto bancario dell’investment banking (Lehman Brothers e quanto ne è seguito), ha contagiato via via tutti gli istituti di credito provocando da una parte il vincolo di maggiori requisiti patrimoniali, dall’altra la paralisi dei vasi comunicanti della liquidità scambiata tra le stesse banche, improvvisamente sospettose l’una dell’altra;
-    le banche italiane hanno retto meglio nella prima fase (2008-2010) rispetto alle colleghe estere, ma i loro limiti strutturali sono emersi a partire dal 2011. In particolare tre: la difficoltà di raccogliere capitale dai soci (fondazioni bancarie e piccolo azionariato per le popolari), la bassa redditività, un portafoglio crediti sempre più danneggiato da potenziali sofferenze.
-    la difficoltà nel ricapitalizzarsi e l’aumento incontrollabile delle sofferenze, cresciute da 39 miliardi di fine 2009 agli attuali 95, costringono oggi le banche italiane a una scelta obbligata: conseguire il giusto rapporto tra Patrimonio di Vigilanza e Attivi a Rischio attraverso la diminuzione del denominatore (Attivi a Rischio) e rinunciando all’aumento del numeratore (patrimonio). Nasce da qui il credit-crunch che ha sottratto al sistema imprese circa 50 miliardi di euro sui 900 in essere alla fine del 2011.
-    infine l’aumento di mancati e ritardati pagamenti, di fallimenti e concordati completa il quadro inducendo l’intero sistema bancario a un atteggiamento di massima cautela nell’erogazione di nuovo credito: la categoria degli imprenditori viene giudicata in grave difficoltà e poco affidabile. Lo stato di diffidenza tra banche e imprese è cresciuto, spesso ben oltre quanto sarebbe giustificabile oggettivamente.

Ebbene, questa situazione non cambierà presto né facilmente, e i primi ad averne preso coscienza sono proprio gli istituti di credito e la Banca d’Italia , entrambi, negli ultimi tempi, sorprendentemente aperti e generosi nell’invocare un’apertura alle imprese da parte del mercato degli investitori. La ragione è chiara: se le banche italiane non riescono più a crescere nei volumi per finanziare quell’eccesso del 25-30% di finanziamenti (“impieghi”) rispetto ai depositi della clientela (“raccolta”), non possono far altro che incoraggiare la crescita di canali di finanziamento che rimpiazzino il credito non più disponibile.

I mini-bond. Il più noto mercato alternativo della finanza per le imprese è quello dei cosiddetti mini-bond, definizione infelice se si considera che nel momento in cui scrivo le emissioni effettuate e targate “mini”, sono quasi tutte superiori a 150 milioni di euro e quindi lontanissime dalla portata delle Piccole e Medie Imprese per le quali già 5-10 milioni di emissione obbligazionaria sarebbero troppi. Sponsorizzato dal governo Monti che ha legiferato una serie di provvedimenti per incentivare emissioni e investimenti in obbligazioni societarie, sostenuto a più riprese dal governatore Visco e ora invocato dagli stessi banchieri (lo ha fatto apertamente Alessandro Profumo nella recente audizione parlamentare) il canale dei mini-bond attende di essere popolato di buyer, ovvero investitori istituzionali (fondi specializzati italiani ed esteri) disponibili a sottoscrivere tagli di emissione piccoli (tra i 3 e 10 milioni) per ampliare l’accesso a qualcosa di più delle 600 imprese emittenti che lo stesso Ministero aveva stimato (secondo le dichiarazioni di Stefano Firpo). 600 emittenti per un taglio medio di 30 milioni di euro immetterebbero un totale di 18 miliardi di debito a rimpiazzare un importo analogo di "mutui bancari".

La strada è tracciata, ma molto lunga. Advisor, studi legali e persino alcune banche sono già alla caccia di società emittenti. Quel che ancora manca è una massa sufficiente di investitori e rimane il dubbio che questi ultimi pretendano ritorni (tassi) ben più alti di quanto una buona impresa (solo chi ha buoni bilanci potrà trovare investitori) paghi di norma al sistema bancario. La frontiera efficiente del rischio/rendimento su cui si muovono gli investitori non farà sconti alle imprese italiane, diversamente dalle banche che ne hanno fatti molti in passato.

Il finanziamento del commercio. A giudicare dalle indagini pubblicate periodicamente da Confcommercio, sono proprio i commercianti ad avere subito il maggiore razionamento del credito da parte delle banche. Diversi di loro potranno trovare un approdo più facile nei sistemi di micro-finanziamento che i grandi retailer online - Google, Amazon (si dice anche Facebook) stanno già erogando negli Usa, e anche nei sistemi di pagamento alternativi come PayPal. Anche in questo caso le banche non se avranno a male, se Google comincerà a far credito anche in Italia, perché il credito alle micro imprese (strutturalmente con alto rischio e bassi rating) costa alle banche troppo capitale e non è efficiente.

Il finanziamento delle fatture. Se nel campo dei mini-bond siamo ancora indietro, la vera rivoluzione potrebbe arrivare là dove le banche meno se l’aspettano, ovvero nei finanziamenti erogati per anticipare (o acquistare) le fatture commerciali. Parliamo di circa 130 miliardi di euro per le banche e 50 miliardi per le società di factoring. In questo comparto le banche si sentono più tranquille, ma forse si sbagliano. Sul mercato si è innescata una poderosa miscela tra tecnologia web e arbitraggio finanziario: mentre le banche stanno finanziando fatture a un costo totale superiore al 10%, comprendendo commissioni e costose garanzie di Confidi e Stato, i fondi money market impiegano a rendimenti vicini all’1%. In mezzo c’è un mare di opportunità per mercati alternativi in grado di collegare domanda e offerta, a patto che risolvano una serie non banale di problemi tecnici per un paese in cui solo il 60% dei pagamenti avviene con puntualità e il recupero del credito è difficile. Questo tipo di piattaforme web operano da tempo con efficacia negli Usa, con o senza le banche, e stanno crescendo velocemente in Regno Unito, Svezia e Germania. Il passo per entrare in Italia, in questa situazione di estrema rigidità delle banche a fronte della sete disperata di liquidità da parte delle imprese, è breve.

Il finanziamento della fiducia. Come se tutto questo non bastasse, si può aggiungere che in questi anni di siccità le piccole e medie imprese hanno imparato ad arrangiarsi per fare fronte al credit-crunch, soprattutto facendo leva su rapporti commerciali storici con clienti e fornitori per ridurre il circolante e il fabbisogno di finanziamenti bancari. Per necessità, più che per virtù, gli imprenditori stanno scoprendo metodi e strade alternative basate su rapporti di fiducia con colleghi imprenditori che concedono ciò che le banche non avrebbero mai potuto concedere. La scoperta del credito di fornitura nella filiera, non più estorto pagando tardi, ma ottenuto in buona fede permetterà a molte imprese di sopportare l’inevitabile riduzione del credito dei prossimi mesi, stimabile per molte piccole imprese intorno al 10-20% del totale oggi a disposizione. Per quanto questo aspetto appaia marginale, è proprio da qui che potrebbe arrivare un inatteso salto di qualità da parte delle Pmi, che potrebbero trovare proprio in questa congiuntura il modo di superare la storica diffidenza reciproca, scoprendo che grazie alla fiducia si possono aprire forme di collaborazione e intesa in grado di andare ben oltre la concessione di tempi e modalità di pagamento generose.

Il vero cambiamento nella finanza delle imprese, rispetto alla eccessiva dipendenza da debito, avverrà solo quando il rapporto tra capitale proprio e debiti verso terzi (fisco, banche, soci) tornerà su livelli più “europei” grazie all’accumulo dei profitti e non alla vendita di appartamenti oggi invendibili. Non c’è altra strada per rimettere sui binari sistema imprese e sistema bancario, ma non c’è circostanza migliore di questa perché i protagonisti ne prendano coscienza, e imparino a regolarsi di conseguenza. Ne può venir fuori qualcosa di buono, in fondo.