L’Italia è un paese barbaro, dove chi salva clandestini in mare rischia la galera. Questa affermazione nelle ultime due settimane è diventata virale. Negli ultimi giorni lo hanno ripetuto decine di politici, giornalisti e commentatori. Ma è proprio vero?

Nessun dibattito sull’immigrazione è completo se non viene ripetuto che la legge Bossi-Fini obbliga a processare chi, dopo aver salvato dei clandestini, li fa sbarcare in Italia. In realtà le cose stano diversamente. In Italia è impossibile processare qualcuno per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina solo per aver salvato dei naufraghi. Lo vietano le leggi italiane e i trattati internazionali. Nessun pescatore italiano è mai stato processato per un reato simile e, come si capisce ascoltando con attenzione le testimonianze dei lampedusani, sono ben altre le preoccupazioni che a volte trattengono i pescatori dal prestare soccorso.

L’origine di questa bugia virale deriva da una dichiarazione del sindaco di Lampedusa, fatta il 3 ottobre 2013, il giorno dopo il naufragio in cui sono morti più di 250 migranti. Ai microfoni di Radio Capital il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini ha dichiarato: «L’Italia ha normative disumane: tre pescherecci sono andati via dal luogo della tragedia perché il nostro Paese ha processato i pescatori che hanno salvato vite umane per favoreggiamento all’immigrazione clandestina». La sua affermazione è stata ripresa immediatamente da quasi tutti i media. In pochi giorni, tra le molte accuse alla legge Bossi-Fini si è aggiunta anche quella di impedire i soccorsi minacciando processi a chi salva i naufraghi.

Molti giornali hanno cavalcato questa storia. Alcuni già il 5 ottobre ipotizzavano che da un momento all’altro i pescatori sarebbero stati indagati dalla procura di Agrigento. Il reato ipotizzato è quello di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, di cui si parla all’articolo 12, comma 1, del Testo unico sull’immigrazione: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona».

A prima vista sembra una norma generica che permette di perseguire chiunque trasporti immigrati in Italia, anche se si tratta di naufraghi tratti in salvo da un’imbarcazione affondata. Il problema è che oltre a questo articolo c’è una giurisprudenza piuttosto lunga - e in certi casi gerarchicamente superiore - che obbliga invece a soccorrere chiunque si trovi in difficoltà. Già nel comma 2 dello stesso articolo del Testo unico viene precisato aldilà di ogni possibile equivoco: «Non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato».

In questo articolo viene specificato che le attività di soccorso e assistenza umanitaria di stranieri in difficoltà che sono già presenti nel territorio italiano non costituiscono reato. Si tratta esattamente di quello che è accaduto nel caso di Lampedusa. Al momento dell’affondamento la nave si trovava a mezzo miglio dalla costa, cioè già nelle acque territoriali italiane. I migranti a bordo, quindi, erano stranieri in difficoltà “comunque presenti nel territorio italiano”. Non c’è solo il Testo unico: altre leggi specificano che salvare le persone in difficoltà non è solo permesso, ma è anche obbligatorio. Agli articoli 489 e 490 del Codice di navigazione viene specificato l’obbligo di prestare soccorso a imbarcazioni o persone in difficoltà a meno che il soccorso non sia un pericolo per l’imbarcazione che presta il soccorso. All’articolo 1158 si specifica che l’omissione di soccorso può portare a una condanna fino ad otto anni.

Cosa sarebbe accaduto se invece il barcone fosse affondato oltre il limite delle acque territoriali italiane? La risposta si trova nei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia, che sono gerarchicamente superiori alle leggi italiane, e in particolare nelle varie convenzioni (SAR e SOLAS) e negli emendamenti che sono stati di volta in volta votati dall’organismo dell’IMO, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di regolamentare la navigazione. La convenzione SAR obbliga a prestare soccorso a chiunque si trovi in mare, anche oltre il limite delle acque territoriali, ma in zona di competenza di un particolare stato, “indipendentemente dalla sua nazionalità” e di condurlo in un “luogo sicuro”. Negli emendamenti ai trattati approvati successivamente vengono specificati alcuni termini. “Luogo sicuro”, ad esempio, non può essere considerata la nave nella quale vengono caricate le persone in difficoltà, che invece è definito un luogo puramente “provvisorio”. Sempre gli stessi emendamenti specificano anche che nessuna organizzazione o persona può influenzare il giudizio del capitano che ha portato il soccorso su quale sia il “luogo sicuro” più adatto in cui portare i naufraghi. In altre parole, un capitano che ritenesse Lampedusa il luogo sicuro più adatto dove portare dei naufraghi, non può essere influenzato o bloccato in questa sua decisione.

Il sindaco di Lampedusa e molti altri di quelli che si sono occupati della vicenda hanno dichiarato che c’è stata almeno un’occasione in cui alcuni capitani di pescherecci sono stati indagati e processati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dopo aver salvato dei naufraghi. È vero, ma si tratta di un caso molto particolare. L’8 agosto del 2007 due pescherecci tunisini salvarono da alcuni barconi 44 migranti e li trasportarono sul’isola di Lampedusa (qui trovate la vicenda raccontata per esteso). Il tribunale di Agrigento indagò i due capitani e i loro marinai proprio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Secondo quanto raccontarono gli investigatori, le stive dei pescherecci erano vuote e non c’era nemmeno odore di pesce. Sospettarono che in realtà i due capitani avessero soltanto finto di salvare i migranti. Il tribunale di Agrigento li assolse da quest’accusa, ma li condannò per “resistenza a pubblico ufficiale” e “aggressione di nave da guerra”.

Era accaduto infatti che le navi della marina militare italiana e della guardia costiera avessero ordinato ai due pescherecci, dopo il salvataggio avvenuto fuori dalle acque territoriali, di invertire la rotta. I due pescherecci, con una serie di manovre aggressive, riuscirono comunque a forzare il blocco e ad entrare nelle acque italiane e poi nel porto di Lampedusa. La corte d’appello assolse i due pescatori anche da queste accuse, sostenendo che vi fosse uno “stato di necessità” (articolo 54 del codice penale) e che quindi, in base anche ai trattati internazionali sottoscritti dall’Italia, i due capitani non potevano essere perseguiti. Nonostante l’assoluzione i due capitani tunisini subirono molti danni a causa del processo – furono tenuti in custodia cautelare per quasi 40 giorni e le loro imbarcazioni vennero sequestrate. Non è chiaro se i due pescatori abbiano ottenuto un risarcimento.

Questo caso, accaduto sei anni fa, non può rappresentare un esempio di quello che accade normalmente quando imbarcazioni salvano migranti in acque territoriali italiane o poco distanti – un fatto avvenuto molte volte dal 2007 ad oggi. Il processo cominciò a causa di alcuni aspetti particolari. Gli investigatori avevano indizi che li portarono a sospettare della storia dei due capitani. La guardia costiera – erroneamente, come ha stabilito la sentenza della corte d’appello – tentò di bloccare l’ingresso in porto dei due pescherecci, che rischiarono così di commettere il reato di “resistenza a pubblico ufficiale”.

In altre parole quello che è accaduto si configura quasi come un caso di errore giudiziario e di danni ingiustamente subiti dai pescatori tunisini. Ovviamente a nessuno piace finire negli ingranaggi della giustizia italiana, anche se per un errore giudiziario. La domanda a questo punto è: quanto sono frequenti casi simili? In altre parole: la legislazione italiana in materia è così poco chiara da fare sì che casi del genere si siano ripetuti frequentemente? Sandro Ruotolo ha intervistato durante la puntata di Servizio Pubblico del 10 ottobre alcuni pescatori di Lampedusa che sembravano confermare questo timore. Cioè che ciò che trattiene i pescatori non è tanto la condanna, ma il sequestro e le lungaggini della giustizia italiana.

In realtà non sembra che sia nemmeno questo il caso. Il procuratore capo di Agrigento ha dichiarato: «I marinai di Lampedusa sanno che ci sono le norme del codice di navigazione che impongono il soccorso di chi è in pericolo in mare, quindi alcuni mai sarà indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Le parole del procuratore sono state confermate da molti pescatori. «Mai nessuno di noi è stato indagato per soccorso ai migranti», ha dichiarato Salvatore Martello, presidente del Consorzio dei pescatori di Lampedusa. Indagini sui pescatori per soccorso ai migranti? Mai avuta notizia» ha dichiarato Giovanni Tumbiolo, presidente del distretto produttivo della pesca di Mazara. E sulla Bossi Fini: «I nostri pescatori non sanno neppure cos’è, conoscono soltanto la legge del mare, che impone i soccorsi alle barche in pericolo».

Ma allora perché, come ha raccontato il sindaco di Lampedusa, nella notte tra il 2 e il 3 ottobre tre pescherecci sono passati vicino al barcone senza cercare di prestargli soccorso? Non esiste una risposta definitiva: ci sono però numerose motivazioni e nessuna ha a che fare con il timore di andare in prigione. Il motivo per cui a volte i pescatori “girano le spalle” davanti ai naufraghi, almeno stando a sentire alcune delle loro dichiarazioni di questi giorni, sembra essere un altro: «i fratelli Campo [...] da quattro anni attendono ancora un rimborso di 40 mila euro per danni ben maggiori di circa 200 mila euro causati proprio da un intervento di soccorso e dall’ingresso nel porto. Quell’azienda che dava lavoro a 20 famiglie è fallita», ha dichiarato Tumbiolo. Non sempre però i soccorsi in mare e il rientro in porto causano danni alle imbarcazioni. Anche il salvataggio in sé per sé causa danni economici: si rischia di perdere il pescato, si interrompe il lavoro e si spreca carburante. Il codice di navigazione prevede che questo genere di danni venga rimborsato, ma a volte questi rimborsi sono molto lenti ad arrivare.

Infine c’è un ultimo motivo, che diversi pescatori hanno lasciato chiaramente intendere durante diverse interviste, tra cui quelle rilasciate alla puntata di Servizio Pubblico del 10 ottobre. Alcuni hanno paura per la loro stessa incolumità. Accostare un’imbarcazione carica di centinaia di persone disperate può essere rischioso anche se nessuno di loro ha intenzioni ostili. Il semplice peso dei nuovi arrivati che saltano sul peschereccio può causare un ribaltamento della nave e trasformare l’operazione di soccorso in un disastro. Alcuni pescatori, poi, hanno raccontato di aver trovato in mare corpi di persone senza testa o con altre ferite. È possibile che a tutti questi timori si aggiunga quello degli scafisti armati che cercano di impadronirsi con la violenza del peschereccio, per poterlo condurre a terra senza dover passare dal porto dove li attendono le autortià. In altre parole, ciò che sembra spaventare i pescatori è la lentezza dello stato nel rimborsare loro i danni che rischiano di subire nei salvataggi e il timore per la loro incolumità fisica. La legge Bossi-Fini e la paura di finire processati, invece, non sembra entrarci molto.