La costante crisi immigrati a Lampedusa, la necessità di riformare la Bossi-Fini e di mantenere un controllo sugli ingressi: Strade ne parla con l'ex Guardasigilli Claudio Martelli, che nel 1990 ha dato il proprio nome alla prima legge sull'immigrazione approvata in Italia.
 
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Strade: Come è evoluta la "questione immigrati", da un punto di vista legislativo?
CM: Innanzitutto, distinguerei fra immigrati e rifugiati. Il punto di fondo comune alle tre leggi che si sono succedute in materia – la mia, la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini – è il principio che un immigrato può entrare in Italia se ha un lavoro e un alloggio. Nella mia legge questo principio era sancito anche con un criterio di "adozione": l'immigrato, lavoratore o studente che fosse, doveva indicare chi sarebbe stato il suo datore di lavoro, così come l'associazione, il sindacato, la famiglia, eccetera, che si sarebbe assunto la responsabilità di accoglierlo e garantirgli un lavoro. La differenza fondamentale è sulle espulsioni.
 
Strade: Ossia?
CM: Nella mia legge, così come con qualche variazione nella Turco-Napolitano, la procedura di espulsione era di carattere amministrativo. A dire il vero, nella Turco-Napolitano assumeva già carattere giuridico, ma non era ancora contemplato il reato penale di immigrazione clandestina, fattispecie che è stata introdotta dalla Bossi-Fini. In questo modo, una materia originariamente amministrativa è stata trasformata in una materia giurisdizionale, ossia in una procedura legale che permette il ricorso dell'interessato, quindi i tre gradi di giudizio, eccetera.
 
Strade: Una trasformazione che ha avuto l'effetto di intasare tribunali e carceri...
CM: Sì, questa decisione ha complicato enormemente la materia, intasando le procure e le preture, senza però che da questo ne sia derivata una miglior tutela dei diritti dello straniero immigrato.
 
Strade: Quindi è giusto abrogare il reato di clandestinità o basterebbe solo riformarlo?
CM: Secondo me, va abrogato. Bisognerebbe tornare alla procedura in vigore con la mia legge.
 
Strade: Fin qui gli immigrati regolari o clandestini. E i rifugiati? In una recente intervista, lei ha dichiarato che “vanno soccorsi e accolti, in base all’articolo 10 della Costituzione”…
CM: E’ così! Sono ancora in vigore le pochissime norme che ho introdotto con la mia legge nel 1990, con la quale fu rimossa quella "riserva geografica" che permetteva, fino a quel momento, di accogliere solo i rifugiati provenienti dai Paesi al di là della Cortina di ferro. Con la mia legge, il diritto di accoglienza fu esteso a tutti coloro che vedevano i propri diritti fondamentali calpestati, che erano discriminati per ragioni politiche, religiose, sessuali o quant'altro.
 
Strade: La Bossi-Fini prevede una sorta di discriminazione a favore dei Paesi che sul rimpatrio dei clandestini si mostrano "collaborativi", ossia di quelli che hanno sottoscritto un accordo in tal senso con il nostro Paese, a sfavore di chi non l'ha sottoscritto. Lei cambierebbe questo punto?
CM: Innanzitutto, chiariamo un punto: il diritto di respingimento è valido solo nei confronti di quei rifugiati che sono precedentemente transitati in un altro Paese che prevede e garantisce il diritto d'asilo. In quel caso, l'Italia può rimandare il rifugiato nel suo Paese d'origine – se esiste un accordo con quel Paese – oppure al Paese di transito in questione. Tuttavia, è evidente che se non ci sono rapporti col tali Paesi, è difficile rendere effettivo il respingimento, dunque il rimpatrio.
 
Strade: È auspicabile un maggiore coinvolgimento europeo?
CM: Certamente, sarebbe molto importante avere una intensificazione del coordinamento e dell'aiuto da parte dell'Unione Europea. In questo senso, credo che in questi giorni si sia aperto un varco, ma gli effetti li valuteremo nei prossimi giorni. Ciò detto, l'Italia deve continuare a fare la sua parte.
 
Strade: Nella pratica, cosa dovrebbe fare l'Italia?
CM: Le faccio un esempio banalissimo: Lampedusa scoppia sotto queste continue ondate di arrivi, in cui si mescolano richiedenti asilo, immigrati "regolari" e immigrati "clandestini". È chiaro che si deve fare una selezione, ma una piccola isola non è in grado di reggere una tale pressione, quindi spetta a noi organizzarci su due dimensioni. Innanzitutto, va fatto ogni sforzo da parte nostra per controllare le coste libiche. Uno sforzo non facile da parte nostra, poiché in Libia siamo di fronte a una situazione politico-statuale molto precaria, ma il primo passo per drenare e distinguere le diverse fattispecie di arrivo è avere un "caposaldo" sulla costa libica. Ciò non ci esime, poi, dalla necessità e dall'interesse di costituire delle strutture, sul nostro territorio, che siano in grado di realizzare una assistenza dignitosa per tutto il tempo necessario all'esame dei casi individuali. Questo va realizzato sulle coste siciliane, sicuramente e per forza di cose su quel braccio di mare e di costa che dà sul Mediterraneo e che è più vicino a Lampedusa, in modo da poter meglio distribuire lo sforzo a livello territoriale.