Ma la ripresa è ancora un miraggio
Ottobre 2013 / Istituzioni ed economia
Mentre a livello globale qualcuno già parla di “fine della recessione”, appaiono sempre più evidenti i nodi irrisolti di un paese incapace di imparare dai propri disastri e di un continente che tende a cronicizzare le proprie contraddizioni. La traversata potrebbe essere ancora lunga.
La situazione della congiuntura economica globale, con dati di attività finalmente tornati nelle ultime settimane mediamente positivi e anche apparentemente vigorosi, ha spinto molti osservatori, soprattutto politici, a decretare più o meno solennemente la “fine della recessione”, dimenticando che non di recessione si è trattato e si tratta, quanto di conseguenze di una devastante crisi finanziaria e di debito. La verità è che ci troviamo in una transizione lunga, complessa e ad alto rischio di ricadute, come sottolineato anche dal Fondo Monetario Internazionale nel suo ultimo Global Financial Stability Report. E oltre alla complessità della transizione, occorre prendere atto che i motori della crescita globale non sono più quelli di un tempo.
Gli Stati Uniti sono alle prese con uno stallo esistenziale apparentemente inconciliabile tra Democratici e Repubblicani, che impedisce interventi di riforma strutturale sull'economia (ad esempio sul fisco), e sposta sulla Federal Reserve e sulle sue politiche monetarie non convenzionali l'onere di tenere l'economia in linea di galleggiamento. La Cina resta un punto interrogativo, essendo a sua volta nel pieno di una delicata transizione da un modello economico guidato da export ed investimenti a uno sorretto da consumi domestici, oltre a trovarsi in condizioni di finanza pubblica locale piuttosto fragili, per usare un eufemismo e al netto della “riservatezza” che contraddistingue le vicende interne del paese. Il Giappone si sta cullando nella illusione di aver scoperto l'elisir della rinascita economica, ma quello che ha sinora fatto è stata la riproposizione di vecchie formule: spesa pubblica e politiche monetarie non convenzionali, che hanno condotto a un forte deprezzamento dello yen, mentre le metriche di deficit e debito restano inquietanti per un paese anagraficamente molto anziano e le velleità di riforme strutturali sono avvolte nella nebbia di resistenze corporative, secondo un collaudato schema.
I paesi emergenti sono stati colpiti da vistosi deflussi di capitali globali nel momento in cui la Fed ha annunciato di voler uscire gradualmente dalla propria politica monetaria non convenzionale. Questi deflussi hanno messo a nudo gli irrisolti problemi strutturali di paesi che nulla hanno fatto per modernizzare le proprie economie, basate su vasti sussidi pubblici su beni di prima necessità e mercati del lavoro e dei prodotti ingessati e protetti. Solo il boom delle materie prime degli scorsi anni ha coperto questi problemi, che ora si ripresentano con forza e faranno dei paesi emergenti un elemento di sottrazione e non più di addizione alla crescita globale.
Poi c'è l'Eurozona, il grande malato. Dove sembra affermarsi una cronicizzazione della malattia, con allentamenti fiscali fatti di sforamenti rispetto al percorso di rientro dal deficit, ottenuti in cambio di condizioni aggiuntive blande o inesistenti. Poi c'è l'Italia, che ha raggiunto il leggendario 3% di rapporto deficit-Pil e ora cerca in ogni modo di mantenerlo, sotto la sferza di una Commissione europea ancora convinta che questi equilibrismi contabili servano realmente a piegare il rapporto debito-Pil, mentre alcuni anni di evidenze ci dicono che accade esattamente il contrario, in un circolo vizioso che si autoalimenta e al quale concorre anche la condizione del sistema bancario, che affoga sotto il peso di sofferenze causate dalla profondità della crisi.
C'è una lezione che sta (forse) venendo appresa anche da quella parte di pubblicistica accademica economica che ha passato gli ultimi anni a predicare la nemesi dei vizi italiani in finanza pubblica e politica economica, chiedendo esclusivamente riforme dal lato dell'offerta, cioè liberalizzazioni. Ora appare drammaticamente evidente che le riforme si possono fare in presenza di crescita, e non di quella che appare come una vera e propria depressione, che causa crolli di gettito fiscale esacerbati dalla irrazionalità di manovre correttive che sostituiscono tasse con altre tasse. Oggi stiamo (stanno, più propriamente) scoprendo che anche la domanda aggregata vuole la sua parte e che servirebbe sforare i parametri di deficit per qualche anno per produrre stimolo ed attuare le riforme in modo quasi indolore. Naturalmente, poiché sappiamo che è nell'animo umano non toccare situazioni che vanno apparentemente bene, è difficile per non dire impossibile pensare che un governo graziato dal raddoppio del deficit-Pil attraverso l'autorizzazione a concedere sgravi fiscali si metterebbe d'impegno con profondi tagli alla spesa, per quanto proiettati nel futuro. Si rischierebbe quella che gli economisti chiamano inconsistenza temporale, cioè la situazione in cui le preferenze di un soggetto cambiano nel corso del tempo, in modo che ciò che è preferito in un certo momento non è coerente rispetto a ciò che è preferito in un altro istante. Di conseguenza, per onorare gli impegni futuri a tagliare la spesa, servirebbe un controllo cogente esterno. È molto improbabile che l'Eurozona evolva in direzione della concessione della facoltà di produrre domanda interna a mezzo di stimolo fiscale, foss'anche sotto la forma di tagli di tasse e non di aumento di spesa pubblica, ma prendiamo atto che da oggi anche la domanda aggregata ed il suo buco sono ufficialmente entrati a far parte della dotazione precettistica degli economisti definiti sbrigativamente liberisti.
Che attenderci, quindi? Una lunga traversata nel deserto, dove la ripresa globale che dovrebbe trainarci appare fragile ed esile, con alto rischio di delusioni e ricadute. Che sarebbero esiziali, per un paese come il nostro, fatto di alto debito e condizioni demografiche sfavorevoli, oltre che geneticamente avverso a qualsivoglia processo di riforma volto a favorire la competizione e liberare energie vitali della società, almeno quelle poche che ci sono rimaste. Ogni dato positivo di Pil tenderà quindi ad essere presentato come riscontro della bontà delle “scelte” fatte (che scelte peraltro non sono), ignorando che ci attende un lungo processo di impoverimento, che a oggi appare difficilmente reversibile.
INDICE Ottobre 2013
Editoriale
Monografica
- E' (ancora) il tempo dell'ottimismo razionale
- Come sopravvivere ai tempi del credit crunch
- Il trionfo della speranza sull'esperienza
- Benedetta questa crisi (se ci salverà dalla paralisi)
- La Casta non basta: il vero spreco sono vent'anni di non riforme
- La spesa pubblica è finita, andate in pace
- Oltre la gerontocrazia sessantottina
Istituzioni ed economia
- Ma la ripresa è ancora un miraggio
- Cronache da Nottingham – In Italia si legifera solo per eccezioni
- Renzi e la sindrome del braccio destro usa e getta
- Il crepuscolo dei liberali tedeschi. Intervista a Frank Schäffler
- Pagheremo le accise, ma non prendeteci in giro
- Mal di banca. Come e perché nulla sarà più come prima
Innovazione e mercato
- Sulla Route 66 della mozzarella di bufala
- L'equivoco, molto italiano, dei minijob tedeschi
- Property rights and GDP growth are positively linked
- Quell'assurda mazzata sulle sigarette elettroniche
Scienza e razionalità
- Il futuro delle biotech italiane, una promessa da mantenere
- Il congedo della ricerca
- La lezione di Stamina e quel che abbiamo rischiato davvero
Diritto e libertà
- Soccorso e pregiudizio
- Claudio Martelli: "Abolire reato di clandestinità e pattugliare coste africane"
- Parità per gli uomini. Dentro il tabù della questione maschile