Il big bang può attendere: le elezioni si allontanano, e Matteo Renzi deve aggiornare le sue priorità. A  farne le spese, per primi, sono spesso i suoi compagni di avventura.

 

La Settimana dell’Apocalisse – ministri del Pdl dimissionari, centrodestra fuori dal governo, esecutivo esploso – infine non si è compiuta. I due quarantenni di VeDrò, Enrico Letta e Angelino Alfano, hanno firmato il patto del Subbuteo, con la partecipazione di Giorgio Napolitano, assicurando una vita più lunga alle larghe intese. Tra i primi a risentire degli effetti della mancata SdA, la Settimana dell’Apocalisse appunto, c’è Matteo Renzi. In caso di elezioni ravvicinate, il congresso del Pd dell’otto dicembre si sarebbe, di fatto, trasformato in primarie per la scelta del nuovo leader da candidare a Palazzo Chigi. Ma così non sarà. L’otto dicembre si sceglierà esclusivamente il prossimo segretario dei Democratici.

Il sindaco di Firenze si trova quindi, suo malgrado, calato in uno scenario diverso da quello desiderato. Affronterà Gianni Cuperlo (e la sua solidità nell’apparato dei Democratici) e non Letta (possibile competitor dei prossimi anni). Se vincerà, dovrà fare il segretario sul serio, un ruolo che impone compromessi con se stessi; significa ricevere telefonate dai territori perché in quella Regione le correnti non riescono a mettersi d’accordo sugli assessorati, perché ci sono troppi pretendenti alla partecipata all’illuminazione di quel Comune, perché Fracazzo da Velletri si sente pronto per fare il capogruppo alla Camera e il gruppo s’è diviso in fracazzisti e non. Per questo, Renzi, fino a poco tempo fa diceva di non sentirsi adatto per Sant’Andrea delle Fratte. Perché è un ruolo di mediazione e invece il sindaco preferisce il ruolo, machiavellico, del Principe – un “Principe democratico”, per citare un libro di Sergio Fabbrini – in cui la leadership è instrumentum regni, magari a scapito dell’elaborazione di complicati programmi elettorali. Perché il principio è che essere una popstar è sufficiente a vincere, in questa società iperspettacolarizzata, dove tutto finisce su Instagram, la foto con un calciatore come quella con un parlamentare. Perché, anche al netto dell’antipolitica berciata che getta strali sulla classe dirigente, c’è sempre bisogno di nuovi idoli pronti a sostituire quelli sulla via del crepuscolo.

Finora, la pars destruens ha pagato per farsi largo, farsi conoscere, diventare popolare, spostare l’attenzione del sistema informativo-politico, che è profondamente romanocentrico. Anche con slogan da pensiero reversibile, «più che un partito pesante voglio un partito pensante» (ricordate la celebre «presa per il culo, il culo nella presa»?). Renzi ha la pretesa di far nascere il nuovo centrosinistra da questa rivoluzione copernicana, per questo finora ha – anche se non del tutto – funzionato, perché c’era bisogno di qualche marziano. Il punto è capire, dal congresso in poi, quanto sarà Renzi a cambiare il centrosinistra o quanto invece sarà il centrosinistra a cambiare lui, con tutti quei Dario Franceschini corsi sul carro del vincitore (ma che forse, e loro certo non lo sanno, saranno i primi a essere rottamati).

Gli errori delle primarie del 2012 hanno pesato: la poca cura per il Mezzogiorno nella rete di relazioni; la cena milanese con i finanzieri, gestita con trasparenza tendente allo zero; l’assenza di una squadra che non trasudasse iperlocalismo. Renzi ha cominciato a mettere mano ad alcuni di questi punti, suscitando ancora qualche perplessità. Farà partire la sua campagna elettorale da Bari (l’anno scorso era a Verona), al posto delle cene con i finanzieri sono spuntati però i pranzi con Flavio Briatore e Alfonso Signorini. Il Giglio Magico, invece, è rimasto sempre quello, nonostante Renzi dica – La Stampa di domenica 6 ottobre – che «nel mio Pd andranno avanti i più bravi non i più fedeli, dichiarerò guerra alla mediocrità». Essere renziani, ripete sempre il sindaco, è «una malattia», per questo, aggiunge, rivolgendosi ai suoi sostenitori, «non chiamatevi renziani, non lasciate che il vostro impegno politico si definisca con il cognome di un altro. Non fatelo, siate ‘‘voistessiani”». E nel Pd le correnti ci sono, sono tante, litigiose, hanno paralizzato l’azione politica del partito, ma quella renziana, dice il sindaco, mica esiste, è un’invenzione dei giornali e di qualche dalemiano. Tuttavia ad ascoltare Domenico Manzione, sottosegretario all’Interno, fratello di Antonella Manzione, capo dei vigili e direttore generale di Palazzo Vecchio, non sembrerebbe. A Report ha spiegato i motivi della sua nomina nel governo: «Sono un tecnico considerato in quota renziana, quindi questo le fa capire com’è che io sia arrivato sin qui. Nel senso che ci arrivo per indicazione derivante da Renzi, basata su ragioni di conoscenza, di affetto, di amicizia e di stima personale».

Capita spesso, però, che chi lavora con Renzi venga colpito dalla sindrome del braccio destro. Pippo Civati, Giorgio Gori, Giuliano Da Empoli se ne sono andati o sono stati messi in minoranza, con motivazioni diverse. Chi, come Civati, accusato di voler fare una corrente, o peggio uno spiffero, creando organizzazioni “rencivatiane” in tutta Italia (ma le associazioni  “Adesso!” fatte nascere poi da Renzi che cosa sono?), chi, come Gori, colpevole di un eccesso di iniziativa personale (andava a Roma a trattare per conto di Renzi senza averne l’autorizzazione), chi, come Da Empoli, architetto del programma per le primarie contro Bersani, sperava di fare il sottosegretario alla cultura del governo Letta, è stato sacrificato per far posto, sempre in quota Renzi, a Simonetta Giordani, tra i cui ultimi incarichi c’è, nel 2006, quello di responsabile dei rapporti istituzionali di autostrade per l’Italia e, dal 2008, quello di Corporate Social Responsibility del gruppo. Su da Empoli hanno pesato i veti di Pier Luigi Bersani e Vasco Errani, fin dalla composizione delle liste elettorali.

Ma Renzi poco, pochissimo ha fatto per difendere i suoi uomini chiave quando sono finiti in difficoltà e, anzi, in alcuni casi ha sfruttato l’occasione per liberarsene. Prendete Roberto Reggi, la Rosy Bindi di Renzi. L’ex sindaco di Piacenza nel 2012 era il capo della campagna elettorale renziana. Tutti a Piacenza se lo ricordano mite, ma durante le primarie contro Bersani si era trasformato in un agnello mannaro. Dopo l’annuncio di Veltroni di non candidarsi alle Politiche disse: «Ora non ci resta che aspettarli uno ad uno sulla riva del fiume». Quando gli undici segretari provinciali dell’Emilia-Romagna si sono riuniti con il leader regionale Stefano Bonaccini (nel frattempo diventato renziano) per sostenere Bersani, lui passò all’attacco: «Non è possibile. Ci riflettano sopra e lo capiranno. Manco Ceausescu». E quelli che nel Pd avevano lavorato alle regole delle primarie? «Scagnozzi di Bersani». Anche lui, che doveva entrare in Parlamento, è rimasto fuori.

Dove sono gli uomini del sindaco di Firenze per il governo del Paese, i professori, gli scrittori, gli studiosi? La tonyblairizzazione di Renzi (che è ciò cui il sindaco stesso aspira) non può passare soltanto da generici richiami a una tradizione neolaburista. Tony Blair è stato Tony Blair anche perché intorno aveva i Peter Mandelson.

Twitter @davidallegranti