Se la Brexit perderà, non sarà grazie alle concessioni di Bruxelles
Dopo un negoziato surreale, Cameron è pro stay, ma il suo partito no. I pro exit sono come i leghisti degli albori, non vogliono in mezzo ai piedi i meridionali d'Europa. A convincere gli inglesi che voteranno pro stay - si spera la maggioranza - non saranno comunque i contenuti dell'accordo con l'Ue, ma ragioni economiche e politiche del tutto diverse.
Il referendum sulla Brexit sembra svolgersi su di un canovaccio da teatro dell'assurdo. Per il regno di Sua Maestà Elisabetta II, abbiamo negoziato a Bruxelles concessioni al limite dell'umiliante per il resto dell'Unione, con il rischio che altri pretendano il medesimo trattamento.
Ma tutto questo non ha neppure portato il partito di Cameron a schierarsi maggioritariamente per lo stay; di più, molti ministri importanti faranno campagna pro-Brexit restando in carica, dopo avere dichiarato che il loro primo ministro, pur avendoci provato, non ha portato a casa quello che serviva. Insomma, alla fine abbiamo scoperto che il negoziato non era con il governo britannico, ma con David Cameron. Il suo personale supporto contro la Brexit sarà comunque importante, anche se decisivo sarà il voto degli elettori dei partiti - libdem e laburisti - che non siedono nella maggioranza a Westminster. Diciamo però che se il primo ministro in questione fosse stato domiciliato a Palazzo Chigi avremmo visto (anche e soprattutto a Londra) fiorire il dileggio sulla natura levantina e inaffidabile della politica italiana e dei suoi protagonisti.
Ora però il punto è cosa accadrà nelle urne di giugno.
Gli inglesi pro stay non voteranno per restare in Europa convinti a farlo dall'accordo tra Cameron e Tusk. Cameron, certo, potrà rivendicare che d'ora in poi i ragazzi cresciuti nelle famiglie italiane e formati nelle università della nostra penisola, che andranno a ingrossare le fila dei talenti che fanno grande e produttiva la city di Londra e l'intera economia britannica, avranno qualche provvidenza di welfare in meno dei figli degli "autoctoni" e dei loro stessi colleghi.
Credo, tuttavia, che gli unici elettori che possano apprezzare questa misura siano quelli che non se ne accontenteranno e chiederanno di più. Più discriminazioni giuridiche e sociali per i parenti poveri dell'Unione, un mercato del lavoro meno aperto a quelli che "vengono da fuori" e quindi meno competitivo ed efficiente, un ristabilito isolamento fisico del Regno Unito dal continente e dai vincoli costituzionali della costruzione europea e del mercato unico, a partire dalle quattro libertà di movimento (persone, beni, servizi e capitali).
Il referendum sulla Brexit è un'estrema concessione a un elettorato che chiede nulla più e nulla meno di quello che la Lega "anti-terrona" (ma non ancora secessionista) degli albori pretendeva: di ristabilire tra nord e sud una frontiera che l'unificazione italiana aveva formalmente abolito e l'immigrazione interna sostanzialmente cancellato e la cui assenza permetteva ai meridionali di "rubare" il lavoro, le case popolari, l'assistenza sociale ai cittadini del Nord. La predicazione incendiaria di Bossi nella provincia lombarda e veneta è la versione domestica di quella di Farage nei pub inglesi.
La Lega non voleva i meridionali d'Italia, gli agitatori pro-Brexit non vogliono i meridionali d'Europa, tra cui, per numero e qualità, spicchiamo proprio noi italiani. I leghisti volevano lasciare l'Italia (ora hanno cambiato idea), questi altri vogliono, semplicemente, lasciare l'Europa. Se poi Bossi aveva dalla sua almeno l'arma retorica dello "sfruttamento fiscale" del Nord e della "rendita fiscale" del Sud - cosa vera, ma che nulla c'entrava con la richiesta di non assumere a Milano impiegati o maestri meridionali - Londra non ha dalla sua neanche questa ragione o questo pretesto.
Se gli inglesi, come penso e spero, sceglieranno di rimanere nell'Europa politica ed economica, lo faranno per ragioni molto più profonde e molto diverse da quelle offerte dall'accordo raggiunto a Bruxelles il 19 febbraio.
Lo faranno perché la secessione dall'Europa provocherebbe la secessione filo-europea della Scozia, probabilmente. Perché la pace in Irlanda sarebbe messa a rischio proprio dal confine "esterno" dell'Unione Europea, che tornerebbe a dividere il nord e il sud dell'isola. Perché gli USA, chiunque ne divenga presidente, con un alleato fedele, ma piccolo e isolato a Londra, potrebbero spostare le loro attenzioni strategiche a Bruxelles (con Berlino, Parigi, Roma e Madrid). Perché i mercati finanziari potrebbero dirottare da Londra verso le capitali del continente parte della finanza in euro, debiti pubblici compresi. Perché il modello dei rapporti esistenti tra Norvegia e UE - a cui i pro exit guardano come un'alternativa che mantenga il filo di un rapporto con Bruxelles, dopo l'uscita dall'Unione - non sarebbe proponibile con Londra e non sarebbe comunque accettato dall'Ue.
Lo faranno, dunque, se le sirene seducenti che promuovono la chiusura politica, sociale ed economica contro la società aperta verranno contrastate da un racconto basato sulla realtà. C'è un filo rosso che lega Trump, la Brexit, Le Pen con i suoi epigoni italiani e Orban: la chiusura nazionalista e lo sdoganamento della xenofobia come forma di difesa degli interessi dei più deboli.
L'Europa unita, libera e pacifica, un assoluto inedito nei secoli fino alla generazione dei padri di noi baby boomers, non è un regalo della guerra fredda, ma il successo di un lavoro faticoso di integrazione politica ed economica. Questo successo può essere sprecato o azzerato? Sì. Il nazionalismo (anche quello monetario) e i muri tra gli Stati sono sempre più popolari tra gli elettori disorientati e impauriti.
L'alternativa non può essere difensiva, non può essere: "sì, ma...". La risposta sui migranti, ad esempio, deve essere corale e da superpotenza consapevole di esserlo. Come dimostra il caso dei fondi alla Turchia - 3 miliardi di euro - non sarebbe impossibile trovare risorse adeguate per un budget a livello UE, all'interno della Commissione o con un super commissario ad hoc, tanto per la gestione delle frontiere (sicurezza, identificazione e respingimenti) quanto per la ricollocazione dei rifugiati aventi titolo a restare in Europa. Impossibile? Può darsi. Ma le immagini, provenienti dai Balcani, delle recinzioni metalliche che non resistono alla marea umana, dolente e speranzosa, sono un monito sulla fragilità dei muri e sul rischio che corrono quanti pensano di resistere così all'assedio: la capitolazione.
La risposta alla voglia di Brexit non può essere tecnica, ma politica: together we stand, divided we fall.
INDICE Marzo/Aprile 2016
Editoriale
Monografica
- Italia, l'ottimismo non basta
- Oggi in Europa scarseggia la ‘credibilità’, perfino più che in Italia
- Produttività del lavoro, il grande malato Italia
- Alla guerra dei decimali l’Italia rischia di capitolare
- Il mercato nello Stato
- L’Italia, un Paese allergico alla concorrenza
- Liberalizzare e privatizzare, la coppia del gol è ancora in panchina
- La giustizia civile e l’inefficienza italiana
- Il Titanic della ricerca italiana
Istituzioni ed economia
- Se la Brexit perderà, non sarà grazie alle concessioni di Bruxelles
- La regolamentazione dei partiti politici: luci e ombre
Scienza e razionalità
- Cultura e metodo scientifico: prendere Proteo per la gola
- Perché è difficile venire a capo dell'emergenza Zika