Alla guerra dei decimali l’Italia rischia di capitolare
Marzo/Aprile 2016 / Monografica
A intervalli di qualche settimana, sui giornali e in televisione, va in scena la contrapposizione tra il governo italiano e le istituzioni europee sull’ormai mitica flessibilità che l’Italia chiede e l’Europa sembra non voler concedere. Ma, ammesso che riuscissimo a ottenerla, saremmo disposti a usarla per le riforme necessarie, che sono difficili da digerire soprattutto per gli italiani?
Alla fine la Guerra dei Decimali - che ha visto contrapposti il governo e i 'gufi' a battagliare sulle statistiche, le revisioni e la metodologia di calcolo del Pil da parte dell’Istat, nonché sull’arrotondamento alla terza cifra decimale per sapere se l’Italia sia cresciuta dello 0,6% o dello 0,8% - l’hanno vinta i gufi.
La verità sui numeri, quella che chiedeva il presidente del Consiglio Matteo Renzi, è che l’Italia non cresce più del previsto, ma meno: doveva essere secondo le stime del governo +0,7% e invece è + 0,6% (non 0,8% come aveva affermato il governo ingannato dai dati grezzi dell’Istat). Ma in ogni caso, anche se le cose fossero andate come aveva annunciato il premier (o volendo considerare i dati grezzi), ciò di cui bisogna prendere atto è che nella Guerra dei Decimali il problema sono proprio i decimali. Che sia la #svoltabuona o il rimbalzo di un gatto morto, l’Italia cresce sempre dello zerovirgola. Ovviamente, per dirla con il filosofo della notte Massimo Catalano, è meglio crescere e avere il segno più che decrescere e avere il segno meno, ma, se si confronta la performance dell’economia italiana con quelle del resto d’Europa, il risultato non è così positivo: cresciamo meno della media e molto meno di paesi che hanno vissuto una crisi peggiore della nostra come Spagna e Irlanda.
Ognuno ha le sue opinioni sull’impatto dei diversi fattori che hanno invertito il trend negativo e spinto l’economia con questa flebile ripresa. Di certo è stata di grande aiuto la politica monetaria della Bce di Mario Draghi, con il quantitative easing e la svalutazione dell’euro, così come ha dato una mano il prezzo vantaggioso del petrolio. Questi fattori esterni dovrebbero spiegare gran parte della ripresa italiana, che d’altra parte è circa la metà della media dell’Eurozona, ma è possibile che un ruolo l’abbiano avuto anche le riforme del governo, a partire dal Jobs Act.
Il punto è che ora la situazione internazionale sembra peggiorare, le previsioni di crescita sono riviste al ribasso e le turbolenze internazionali possono portare brutte sorprese per un paese ancora convalescente. Inoltre nei prossimi anni, in un contesto meno favorevole, verranno al pettine alcuni nodi irrisolti e si dovranno prendere decisioni su questioni sempre rimandate, riassumibili con un numero: 50 miliardi. Sono le clausole di salvaguardia che scattano nei prossimi due anni, che vuol dire 50 miliardi di nuove tasse, circa 3 punti di Pil.
Non si potrà certo replicare la politica adottata quest’anno: metà dell’ultima legge di stabilità è stata infatti impiegata per rinviare le clausole di salvaguardia in deficit, comprando tempo. A ben guardare, uno dei dati positivi sbandierati dal governo in Europa, ovvero l’inizio della discesa di un debito pubblico che supera il 130%, si basa proprio sulle clausole di salvaguardia che scatteranno nei prossimi anni. Quindi dal prossimo anno l’esecutivo non avrà molte scelte: o taglia la spesa, o alza la pressione fiscale o aumenta ulteriormente il debito. Naturalmente tra queste alternative solo una è auspicabile ed quella che si è sempre rivelata essere la più difficile da percorre per la politica, ovvero la riduzione della spesa pubblica.
In questo contesto il governo sta intraprendendo una dura battaglia con la Commissione Europea (aka la Germania) per ottenere maggiore flessibilità, vincoli di bilancio meno stringenti, ma parliamo sempre di decimali. Il problema per l’Italia non è tanto se questo margine di flessibilità verrà concesso o meno, dato che si tratta di soldi nostri e non di soldi europei come molti amano far credere o immaginare: alla fine saranno sempre e comunque i contribuenti italiani a dover saldare il conto. Il problema è come impiegare queste poche ulteriori risorse che andranno ad appesantire un debito già enorme. Il governo ad esempio quest’anno ha usato la flessibilità per rinviare la spending review, per tagliare le tasse sugli immobili e per alcune spese squisitamente elettorali e dalla dubbia giustificazione morale, come il bonus da 500 euro per i 18enni per lottare contro il terrorismo islamico. Non sembrano provvedimenti destinati a scuotere l’economia. Inoltre andrà a spegnersi anche la decontribuzione sul lavoro, una misura congiunturale che ha sì portato dei benefici sul fronte dell’occupazione, ma su cui sono state investite risorse troppo ingenti rispetto ai risultati.
La strada della politica economica, dunque, è stretta, e passa per forza dalla sempre rinviata riduzione della spesa pubblica. Ma se il governo ha in mente di dare il famoso 'colpo di frusta' all’economia, la leva su cui agire è la riduzione delle tasse su imprese e lavoro. Bisogna avere la consapevolezza che non esistono scorciatoie magiche e lafferiane (l’esatto opposto di quelle keynesiane) con tagli delle aliquote che magicamente si ripagano da soli (l’altra faccia della spesa pubblica che ripaga sé stessa). Se il governo dovesse riuscire a strappare concessioni dall’Europa, l’unico modo sensato di usare la ritrovata flessibilità sarebbe quello di non disperderla in mille rivoli di spesa, ma di puntare tutte le fiches sulla riduzione della pressione fiscale, abbattendo il cuneo fiscale, l’Ires e l’Irap.
Naturalmente a fianco bisognerebbe adottare un piano serio e dettagliato (tipo con il foglio Excel, come diceva una volta il premier) di taglio consistente della spesa pubblica per disinnescare le clausole di salvaguardia sull’Iva e rientrare negli anni successivi del maggiore deficit. Inoltre, affinché il taglio della pressione fiscale si trasformi in uno shock sul lato dell’offerta e abbia effetti positivi sulla crescita, il governo dovrebbe attuare tutta una serie di riforme per attrarre investimenti e creare un ecosistema favorevole alla produzione di ricchezza, dalla sburocratizzazione alla riduzione dei tempi della giustizia fino alla rottura delle barriere che impediscono la concorrenza. Riforme con un costo di bilancio ridotto, ma con un prezzo elettorale elevato.
Insomma, se si vuole fare una dura battaglia con l’Europa deve essere per rivoltare il paese, non per avere qualche decimale in più da spendere in bonus o sussidi temporanei. Si deve essere coscienti che fare politiche in deficit significa acquistare tempo, e l’Italia, con il debito che ha sul groppone, è nelle condizioni di chi tempo non ne ha tanto. Bisogna, poi, essere consapevoli che la parte più dura di un piano del genere non è farlo digerire a Bruxelles ma agli elettori italiani. Per fare una rivoluzione bisogna impegnare tutto il proprio capitale politico. L’alternativa è vivacchiare, scrutare le variazioni decimali vicine all’errore statistico e sperare che dal resto del mondo non arrivi qualche scossone che può mandarci gambe all’aria. Cos’è più rischioso?
INDICE Marzo/Aprile 2016
Editoriale
Monografica
- Italia, l'ottimismo non basta
- Oggi in Europa scarseggia la ‘credibilità’, perfino più che in Italia
- Produttività del lavoro, il grande malato Italia
- Alla guerra dei decimali l’Italia rischia di capitolare
- Il mercato nello Stato
- L’Italia, un Paese allergico alla concorrenza
- Liberalizzare e privatizzare, la coppia del gol è ancora in panchina
- La giustizia civile e l’inefficienza italiana
- Il Titanic della ricerca italiana
Istituzioni ed economia
- Se la Brexit perderà, non sarà grazie alle concessioni di Bruxelles
- La regolamentazione dei partiti politici: luci e ombre
Scienza e razionalità
- Cultura e metodo scientifico: prendere Proteo per la gola
- Perché è difficile venire a capo dell'emergenza Zika