Italia, l'ottimismo non basta
Marzo/Aprile 2016 / Monografica
Le conseguenze della crisi finanziaria che ha investito il mondo nel 2008 continuano a sconvolgere il mondo, ma, mentre alcuni Paesi sono riusciti a riprendersi e tornano a crescere, l’Italia resta la grande malata d’Europa. La vulgata ottimista a tutti i costi di gran parte della classe politica di governo non è la soluzione, ma è parte del problema.
'Can a country talk itself into a recession?', si chiedeva non senza una punta di provocazione Robert Shiller. 'Può un Paese cadere in recessione a forza di parlarne?' Erano i mesi successivi alla grande crisi del 2008-09 e iniziavano i primi tentativi di dare un senso a quegli eventi paurosi e apparentemente repentini.
L’economista di Yale invitava a riflettere sui fattori psicologici quali possibili (con)cause della Grande Recessione, sulla paura, sulla speranza, sull’esuberanza più o meno (ir)razionale - espressione resa famosa da Alan Greenspan negli anni ‘90 e titolo di un vecchio libro dello stesso Shiller - sull’importanza della fiducia per generare crescita economica, sul ruolo, in sostanza, di quegli animal spirits resi celebri dalla General Theory di John Maynard Keynes, secondo cui 'a large proportion of our positive activities depend on spontaneous optimism rather than mathematical expectations, whether moral or hedonistic or economic' ['Gran parte delle nostre attività positive, che siano morali, edonistiche o economiche, dipendono da un ottimismo spontaneo più che da aspettative calcolate matematicamente'].
'Can a country talk itself out of a recession (or into prosperity)?' 'Può un Paese uscire dalla recessione, a forza di parole?' potremmo invece, parafrasando Shiller, dire noi, almeno stando a quelle che sembrano le convinzioni profonde e ai comportamenti della nostra classe politica di governo nell’ultimo decennio, da Berlusconi a Renzi.
È come se, a partire da un iniziale e comprensibile apprezzamento del ruolo che rivestono le aspettative positive nel 'determinare' l’azione degli agenti economici, le due figure di maggior rilievo degli ultimi quindici anni si fossero persuase che narrare senza posa la saga delle 'magnifiche sorti e progressive' di un’Italia che presto - un 'presto' che continua a recedere in un futuro indistinto - diverrà la locomotiva d’Europa sia condizione necessaria e sufficiente per la tanto agognata ripresa; che rassicurare sempre e comunque, stemperando la gravità delle difficoltà strutturali, induca gli imprenditori ad assumere e i consumatori a spendere; che addomesticare i dati e occultare le cattive notizie renda meno ruvida la percezione del rischio paese. 'L’ottimismo [...] ripetuto fino allo sfinimento, qualunque cosa accada, di fronte a qualunque problema o questione politica', come ha scritto Sofia Ventura nella sua analisi della comunicazione renziana.
Se, tuttavia, le ricerche e gli articoli di Shiller, pur non esenti da critiche, rappresentano uno stimolante contributo al dibattito, la caricatura della 'questione fiducia' che promana da Palazzo Chigi non soltanto è, almeno finora, servita a poco o nulla rispetto agli obiettivi dichiarati, ma con tutta probabilità ha contribuito a peggiorare le cose.
Per accorgercene, anche volendo rimanere alla sola attualità più stretta, non dobbiamo guardare troppo lontano: pensiamo alle rinnovate turbolenze che hanno investito il settore bancario, riguardo al quale per anni si è negata recisamente l’esistenza di qualsiasi problema. Mentre la Spagna procedeva decisa alla ristrutturazione delle proprie banche, mentre i crediti deteriorati continuavano ad accumularsi in modo preoccupante, le nostre autorità si vantavano della solidità relativa degli istituti italiani - privi di subprime, si diceva, poco adusi alla lingua inglese, si ripeteva. Al contrario, la combinazione tra decenni di scambi incestuosi tra mondo del credito e politica e stato di stagnazione perenne dell’economia ha trasformato larghe parti del bilancio del sistema creditizio nel nostro peculiare, gigantesco subprime in guisa di NPLs (non performing loans).
Guardando avanti, la tripla minaccia di a) tassi di interesse bassi o persino negativi e appiattimento della curva dei rendimenti che rendono difficile la generazione di utili da attività classica di intermediazione - un taglio del deposit rate di 20 punti base ha il potenziale di ridurre i profitti bancari di circa il 10% in media rispetto alle stime al 2017, ovvero di portarsi via quasi un punto percentuale di ROTE (return on tangible equity); b) previsioni di crescita tutt’altro che esaltanti; c) consapevolezza degli investitori - azionari, ma anche e soprattutto obbligazionari - che la garanzia pubblica stia progressivamente venendo meno e che, sempre di più, il bail-in in varie forme sarà lo strumento privilegiato di risoluzione delle crisi, suggerirebbe tutto tranne le reazioni panglossiane cui troppe volte abbiamo assistito.
E questo al netto di un altro pesantissimo non-detto, vale a dire l’ingente quantità di BTP acquistati dalle banche, per ora considerati dai regolatori risk-free ai fini della ponderazione per il rischio, ma che, non senza buone ragioni, alcune voci di peso in Europa vorrebbero equiparare ai normali prestiti, cosa che comporterebbe un accresciuto fabbisogno di capitale, nonché probabili ricadute, almeno a breve termine, sulla capacità di erogazione di nuovo credito. La pesante eredità di scelte sbagliate del passato e di regolatori troppo compiacenti rende sempre più difficoltoso approdare a un regime più razionale. E ciò è vero ben oltre gli attuali problemi delle banche.
Fino a oggi, con poche eccezioni, il corso d’azione privilegiato è stato quello di negare o distorcere la realtà, sperando in qualche colpo di fortuna o nel permanere di circostanze eccezionali e per molti versi irripetibili, dal prezzo del petrolio in forte ribasso a una politica monetaria estremamente espansiva. Quando poi, nonostante la congiuntura internazionale a tratti molto favorevole (come per buona parte del 2015), si è costretti a realizzare che la crescita italiana oltre lo zero virgola proprio non riesce ad andare, immancabilmente fa capolino la seconda parte del copione: l’individuazione di un responsabile esterno (la Germania, l’Europa, la Commissione europea…) su cui scaricare la colpa, normalmente identificata con l’austerity che verrebbe imposta un po’ a tutti in modo indiscriminato: 'l’Europa è ferma, l’Italia vuole cambiare rotta', nelle parole di Renzi.
Si tende a suggerire che l’intero continente sarebbe in qualche modo e per qualche misterioso motivo incagliato, dimenticando che, se non esistesse l’Italia, i numeri aggregati sarebbero assai più lusinghieri di quanto non appaiano a prima vista. La discesa dei prezzi è ormai un fenomeno mondiale e coinvolge paesi che in nessuna misura possono dirsi in crisi, dalla Svizzera alla Germania, dall’Olanda alla Svezia. Certo, la Francia zoppica, ma è ancora lontana da una compiuta 'italianizzazione' (ed è comunque impossibile incolpare, per la sua condizione, i tagli selvaggi o una non meglio precisata austerità, visto che Parigi non fa che inanellare ampi e ininterrotti deficit di bilancio). Intanto, la Spagna – il paese forse per noi comparativamente più interessante – accelera: dopo un 2014 in deciso recupero (Pil 2014 a +1,4% contro il -0.4% dell’Italia e tasso di occupazione tornato stabilmente al di sopra del nostro) e un 2015 a +3,2%, guarda a un 2016 non lontano dal 3%, secondo le proiezioni d’autunno della Commissione. Anche il Portogallo cresce a ritmo doppio rispetto all’Italia, per non parlare del Regno Unito a +2,3%. Detto altrimenti, la profondità dei suoi problemi microeconomici e istituzionali ormai fa dell’Italia una sorta di unicum nell’ambito dei paesi Ocse.
La solidità si misura nei momenti di difficoltà, non in quelli di calma. Noi, come ha recentemente ricordato Mario Monti, nel corso di un acceso scontro parlamentare, al premier in carica, restiamo un paese ad alto rischio, dal potenziale di crescita vicino allo zero, dallo spazio fiscale pressoché nullo in caso di problemi e che, tuttavia, sceglie di ricorrere a deficit aggiuntivo in una fase (pur debolmente) espansiva - mentre i Medium-Term Budget Objectives in termini di deficit strutturale allo 0,5% e di riduzione del debito (meno 90 miliardi e un livello del 124,8% del Pil entro il 2017) si fanno sempre più chimerici; un paese sulla cui testa pendono decine di miliardi di clausole di salvaguardia, cioè di maggior prelievo; un paese da cui i mercati fuggono quando il sentiment dei mercati volge al brutto; un paese il cui debito pubblico si tiene in piedi solo grazie alla “Draghi put”, una promessa ancora tutta da testare e che, in ogni caso, rende molto striminzito il margine negoziale con Bruxelles, ché senza ombrello europeo il default sarebbe garantito. Il tentativo costante di addolcire la pillola si frappone all’operazione verità di cui avremmo disperato bisogno, verità che attiene ai nostri mali di lungo corso, tutti, a dispetto del complottismo imperante, essenzialmente di origine interna.
Per questo sarebbe necessario anche mettere da parte il martellante attacco all’austerità, al (neo)liberismo, al (presunto) mercantilismo di matrice tedesca - sostenuto da una diffusa quanto inaccettabile visione del commercio internazionale come gioco a somma zero, mista a inclinazioni protezionistiche a senso unico e a una scarsa comprensione del valore delle liberalizzazioni come stimolo fondamentale per la crescita - e cominciare a inquadrare in modo più corretto i problemi, comprendendo prima di tutto una cosa: l’ostacolo fondamentale è la pervasiva intermediazione dello Stato, o almeno, di questo Stato, che sembra esistere solo per drenare sempre maggiori risorse dal sistema produttivo e dirottarle verso sussidi e assistenza, distruggendo così la competitività. Fenomeno che non si limita alla sola spesa corrente, ma coinvolge anche gli stessi 'investimenti' additati come panacea di ogni male, inclusi, c’è da temere, quelli, pur ancora sulla carta, dell’entità mitica che va sotto il nome di 'piano Juncker'.
Infatti, come è stato documentato a più riprese, l’Italia si distingue per la pressoché totale assenza di analisi costi-benefici serie e indipendenti a monte delle decisioni di investimento pubblico, dunque non c’è garanzia alcuna di ritorni economici e sociali accettabili. Non a caso, chi si prendesse la briga di leggere i (pochi) tentativi di valutare alcune delle principali opere (messe in cantiere o già realizzate), in particolare nel settore dei trasporti, si imbatterebbe in storie dell’orrore, fatte di numeri sballati, previsioni di traffico inventate, conflitti di interessi multipli e plurimi sforamenti di budget.
Con queste premesse, nemmeno il 'conto capitale' ci salverebbe, anzi, potrebbe persino risultare dannoso, non diversamente da quanto accaduto al denaro convogliato negli anni verso i paesi istituzionalmente deboli, in cui l’aiuto internazionale ha alimentato corruzione e malaffare. Questa sorta di pseudo-keynesismo diffuso, che nelle sue varianti informa buona parte della cultura politico economica nostrana, da una parte evita di porsi il problema dell’impiego oculato delle risorse, cioè dei loro ritorni, dall’altra tenta di occultarne la provenienza (tasse e/o debito) e i trade-off che ne caratterizzano l’allocazione.
La sfida cruciale - una sfida culturale, in primo luogo - è quella di trasformare lo Stato, dallo 'svantaggio assoluto che è oggi, in elemento capace di fornire attivamente un contesto ospitale e attrattivo per gli investitori e per il capitale umano qualificato. State enabler e non più solamente provider. Scordarsene significa invertire pericolosamente l’ordine delle priorità, oltre che ignorare a bella posta la storia economica del paese. Questo vale anche per le teorie ultimamente tanto in voga circa il cosiddetto Stato innovatore, divulgate dal popolarissimo libro di Mariana Mazzucato. Ammesso che ci sia spazio per un simile ruolo del settore pubblico – ma un approccio meno superficialmente entusiasta, ovvero più laico e problematico, non guasterebbe – non è serio parlare dello Stato come se fosse un’entità astratta, come se esso esistesse a prescindere dalle sue incarnazioni storico-politiche, come se potessimo pensare di affidare un compito al settore pubblico negli Stati Uniti e in Italia, in Finlandia e in Mozambico, in Svezia e in Grecia, e aspettarci che queste coppie di paesi producessero poi gli stessi risultati.
Le premesse ideologiche che informano l’ingerenza statuale, inoltre, non sono per nulla irrilevanti nel valutarne l’opportunità ex ante e l’efficacia ex post. Alitalia, Sulcis e Ilva sono operazioni che poco davvero hanno in comune con General Motors e Chrysler, ad esempio. Interventi conservativi e prettamente assistenziali i primi, trasformativi e sin dall’inizio mirati alla sostenibilità economica i secondi. 'Salvare' GM e Chrysler significò prendere decisioni non meno che brutali: pesanti razionalizzazioni di personale, impianti produttivi e reti di vendita; drastica riduzione di benefici sanitari e pensionistici per i dipendenti; ampie riduzioni di stipendio per i manager; cospicue perdite inflitte agli obbligazionisti e molto altro ancora. Brutali, ma realistiche, nella consapevolezza che solo un’azione decisa avrebbe avuto una chance di rimettere in sesto le due società, preservando così la produzione futura e un numero comunque ancora rilevante di posti di lavoro, una volta che fossero tornate ad avere una redditività accettabile; procedere con minore incisività allora avrebbe semplicemente spostato più in là l’inevitabile - arte in cui peraltro, al di qua dell’Atlantico, sembriamo essere ineguagliati maestri.
All’epoca della Grande Recessione americana, prese a circolare con insistenza la massima secondo cui 'a crisis is a terrible thing to waste', sprecare una crisi è davvero una brutta cosa. Si voleva così affermare che il senso d’urgenza dettato da una fase di crisi acuta può dare una spinta decisiva all’impeto riformatore. Per parte nostra, alla fine del 2011 abbiamo sperimentato come le turbolenze e la conseguente pressione a 'fare presto' non sempre conducano alle migliori scelte di lungo periodo. La tregua - fragile e tenue, come dimostra l’inizio burrascoso del 2016 - che i mercati ci hanno concesso dal 'whatever it takes' di Draghi in poi, questa sì, sarebbe un’opportunità imperdonabile da sprecare. Purtroppo, invece, è quello che per molti versi sta accadendo.
INDICE Marzo/Aprile 2016
Editoriale
Monografica
- Italia, l'ottimismo non basta
- Oggi in Europa scarseggia la ‘credibilità’, perfino più che in Italia
- Produttività del lavoro, il grande malato Italia
- Alla guerra dei decimali l’Italia rischia di capitolare
- Il mercato nello Stato
- L’Italia, un Paese allergico alla concorrenza
- Liberalizzare e privatizzare, la coppia del gol è ancora in panchina
- La giustizia civile e l’inefficienza italiana
- Il Titanic della ricerca italiana
Istituzioni ed economia
- Se la Brexit perderà, non sarà grazie alle concessioni di Bruxelles
- La regolamentazione dei partiti politici: luci e ombre
Scienza e razionalità
- Cultura e metodo scientifico: prendere Proteo per la gola
- Perché è difficile venire a capo dell'emergenza Zika