Ci siamo detti per tanto tempo: il nostro paese dev’essere più credibile per riconquistare la fiducia altrui e ottenere un’Eurozona più funzionale. E se questa strategia stesse diventando impraticabile? Pericoli nordici di ‘rinazionalizzazione’ e nuove sfide euroscettiche.

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La crisi dell’euro è stata, e in larga parte continua a essere, una crisi di fiducia. Negli scorsi anni, i mercati finanziari (leggi: i risparmiatori e gli investitori di tutto il pianeta) hanno dubitato della volontà degli stati membri dell’Eurozona di restare uniti fra loro. Non solo: i capi di governo dei paesi membri hanno dubitato a loro volta della sincera volontà dei propri colleghi di muoversi nella stessa direzione, magari per correggere l’architettura disfunzionale dell’Unione economica e monetaria. Gli imprenditori e i lavoratori, inoltre, hanno dubitato delle capacità della politica nazionale di garantire le condizioni minime necessarie per lo sviluppo economico. Di conseguenza i cittadini sono diventati più scettici del solito nei confronti di leadership che non sono sembrate all’altezza, incapaci di fornire soluzioni plausibili a tale situazione di stallo.

Questi meccanismi, nell’Italia degli ultimi cinque anni, li abbiamo visti all’opera da vicino: i rendimenti dei titoli del debito sovrano che schizzarono verso l’alto tra il 2011 e il 2012, a segnalare che si credeva poco nella capacità di alcuni paesi di risanare i propri conti pubblici; i ‘compiti a casa’ sulle riforme richiesti a brutto muso da Bruxelles e Berlino e le nostre contro-richieste su Eurobond e ombrelli monetari protettivi, scambi che ancora oggi assomigliano troppo spesso a un dialogo fra sordi; infine la congiuntura economica tutt’altro che rosea, con l’effetto sfiducia che continua a manifestarsi tanto nella voglia matta di risparmiare invece che di consumare, quanto nel freno a mano tirato – quasi per un lustro – sugli investimenti.

La mancanza di fiducia, nel corso di questa crisi, si è dunque manifestata a più riprese, su dossier differenti e fra attori di diverso tipo. Ciò ha reso più difficile rispondere correttamente alla seguente domanda: a chi spetta per primo l’onere di agire e comportarsi in maniera tale da produrre un sentimento di sicurezza e tranquillità nel soggetto che ha perso fiducia? La risposta, obiettivamente, non può essere sempre la stessa. E un’Italia considerata ‘credibile’, in questo momento, non è detto che basti di per sé a rianimare il processo comunitario.

Per spiegarmi, esaminerò la situazione proprio dalla prospettiva italiana. Nel nostro paese, il dibattito pubblico sulla crisi si è articolato essenzialmente a partire da due scuole di pensiero: da una parte quella euroscettica, secondo cui la moneta unica e la tendenza inarrestabile verso una ‘unione sempre più stretta’ sarebbero state alla radice di ogni scompenso che oggi ci investe; dall’altra parte quella europeista, all’interno della quale si ritiene che l’unione monetaria barcolli pericolosamente per il fatto di non aver rottamato a sufficienza le frontiere e le logiche nazionali a favore di un percorso più federalista e integrazionista.

Complici alcuni recenti sviluppi come il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Ue, l’ondata migratoria in corso, l’incompletezza dell’Unione bancaria e certe forme di isolazionismo che sembrano attecchire nell’establishment tedesco, ritengo che presto la seconda scuola di pensiero – quella euro-integrazionista – dovrà trovare risposte a una sfida intellettuale e politica più complessa del solito. Più complessa e seria, intendo, rispetto al tipo di obiezioni del classico fronte ‘no euro’, con le sue pseudo-alternative miracolistiche, che già abbiamo ascoltato per anni. Vediamo perché.

 

La vulgata euro-riformatrice

I commentatori e i politici europeisti più riformatori hanno spesso posto l’enfasi sulla necessità di uno sforzo dell’Italia per ristabilire una ‘credibilità’ perduta, attraverso riforme strutturali e rigore sui conti pubblici. Soltanto così – continuava il ragionamento che qui sintetizzo e semplifico – si sarebbe potuto ristabilire un sentimento di fiducia nei nostri confronti: tra i cittadini, in Europa e poi di conseguenza nei mercati.

In cambio di una rinnovata credibilità e di una riconquistata fiducia, sarebbero arrivate compensazioni non tanto sotto forma di concessioni spicciole – un decimale in più di deficit fiscale o similia – quanto nei termini di una correzione di fondo, in senso federalistico, solidaristico o mutualistico che dir si voglia, dell’architettura istituzionale dell’Eurozona. Ecco come sarebbe dovuta andare, sulla carta almeno: noi italiani teniamo i conti in ordine a partire da oggi, auto-imbrigliandoci in un accordo internazionale come il Fiscal compact, e da domani i paesi del nord acconsentiranno – per rendere davvero funzionale e irreversibile la moneta unica – alla creazione di Eurobond, cioè titoli del debito pubblico emessi in comune a livello europeo.

Questa almeno è l’ottica di chi ritiene che la ‘credibilità’ fiscale e riformatrice sia, piuttosto che una virtù morale, un fondamento necessario e molto concreto per una mutualizzazione efficace dei rischi fra paesi diversi. Inutile che un’Europa politicamente più integrata inizi a emettere Eurobond, per dire, se poi a indebitarsi saranno sempre gli stessi Stati (esempio: l’Italia) e a pagare il conto saranno sempre gli altri (esempio: la Germania); questa situazione sarebbe infatti politicamente insostenibile nel medio periodo. Ancora: inutile che un’Europa più integrata spinga tutti i paesi membri ad accettare la concorrenza internazionale dei partner, perfino sul trasporto ferroviario (esempio: in Italia), se poi in altri paesi (esempio: in Germania) la politica riuscisse a impedire di fatto la liberalizzazione del settore domestico dei servizi; imprese e consumatori dei diversi paesi non potrebbero accettare ciò a lungo. Il nesso tra credibilità, fiducia e migliore integrazione europea dovrebbe a questo punto essere chiaro.

È alla luce di tali considerazioni che ampi settori della classe dirigente italiana, dai tempi del governo tecnocratico di Mario Monti in poi, sono tornati dunque a sostenere che più sarebbe aumentata la nostra ‘credibilità’, più sarebbe cresciuta la fiducia altrui nei nostri confronti e tanto meglio le cose sarebbero andate per tutti. Perché un’Italia credibile – ripercorro il filo del ragionamento – avrebbe fatto piazza pulita dei pregiudizi e delle ritrosie che impedivano alle leadership di altri paesi di fidarsi e di condividere con noi, come pure con i greci, gli spagnoli, i francesi e altri, una serie di rischi (fiscali, finanziari o politici che fossero). Se la crisi attuale è crisi di fiducia, non si può che partire da qui. Si tratta di una tesi che è stata a lungo cara anche all’attuale ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, già capoeconomista dell’Ocse.

Oggi, tuttavia, la suddetta tesi regge ancora alla prova dei fatti? L’impressione è che, mentre in molti si chiedevano se fosse nato prima l’uovo o la gallina, e cioè se dovesse essere ristabilita prima la credibilità per ottenere il credito altrui o viceversa se dovessimo ottenere prima una unione monetaria più funzionale per poi poter correggere le storture di casa nostra, nel panorama europeo tante cose siano cambiate, incrinando in parte il nesso credibilità-fiducia-migliore integrazione. Oggi chiedersi se venga prima la credibilità nazionale o la condivisione dei rischi tra diversi stati membri sembra avere poco senso, visto che un processo di ‘rinazionalizzazione’ è comunque in corso in vari ambiti.

 

Immigrazione, banche, debito: chacun pour soi

La crescita anemica, dopo anni di recessione, rimarrà pure il male più grave del Vecchio continente. Tuttavia, con buona pace degli accapigliamenti in materia di flessibilità fiscale (italiana) o export eccessivo (tedesco), una crisi sistemica potrebbe stavolta manifestarsi ancora prima sul fronte della politica migratoria. Non è più soltanto il reprobo ungherese Viktor Orbán a voler gestire da sé le frontiere nazionali; al cospetto delle défaillances del piano ‘porte aperte’ della cancelliera Angela Merkel e dell’atteggiamento dei paesi che si trovano a controllare la frontiera esterna dell’Unione europea, anche altri stati sulla rotta balcanica (Austria inclusa) hanno fatto capire di non fidarsi più dei paesi limitrofi e di voler riaccentrare a livello nazionale la supervisione delle frontiere, anche, se del caso, sigillandole dall’interno.

Perfino da Berlino non sono mancate voci, finora a dire il vero smentite da Merkel, su un ‘piano B’ che comporterebbe un allontanamento radicale da Schengen nel caso di accessi incontrollati di richiedenti asilo anche quest’anno. Per comprendere la portata, non solo simbolica, di tali scelte, c’è da immaginarsi cosa potrebbe accadere in paesi di confine come il nostro o la Grecia, una volta che ogni meccanismo di redistribuzione e condivisione dei nuovi arrivati fosse bloccato unilateralmente da nord.

Non che nel frattempo nel campo della governance economica, dopo gli sforzi di risanamento di alcuni paesi, si proceda in maniera lineare. Anzi, forse iniziamo a scorgere le cicatrici lasciate nell’opinione pubblica tedesca dal balletto della Grecia di Alexis Tsipras nel 2015. Nell’establishment di Berlino (e in particolare di Francoforte) si rafforza infatti l’idea che un coordinamento a trazione tedesca e imposto dall’alto sarà pure auspicabile ma è difficile da far rispettare sempre e comunque al club dei ‘paesi indisciplinati’. Meglio dunque rinazionalizzare alcuni rischi, a partire da quelli bancari e arrivando a quelli sovrani. Ludger Schuknecht, capoeconomista del ministero delle Finanze guidato da Wolfgang Schäuble, ha ribadito di recente che ogni schema di tutela comune dei depositi bancari europei equivarrebbe a un attentato ai contribuenti tedeschi. La garanzia comune doveva essere la terza gamba dell’Unione bancaria, quella che per Mario Draghi è la più importante riforma dall’introduzione dell’euro, dopo aver costituito un supervisore unico (Ssm) per sorvegliare gli istituti di credito e un Meccanismo unico di risoluzione (Srm) per trattare con le banche in estrema difficoltà e destinate possibilmente alla chiusura. Berlino però dice ‘nein’, perché la terza gamba equivarrebbe a una indebita mutualizzazione di rischi tra correntisti europei e contribuenti tedeschi. E questo nonostante sia già stato messo in piedi, come visto, un sistema comune e piuttosto arcigno di regole e controllori sulle banche del continente.

Idem per il rischio sovrano. Berlino di recente ha fatto sapere che non lascerà completare l’Unione bancaria fino a quando tutti gli stati dell’Eurozona non avranno totalmente spezzato il nesso tra rischio sovrano e rischio bancario. In concreto, la Germania chiede di mettere in agenda un cambiamento delle regole sulla valutazione del rischio dei titoli del debito sovrano in pancia alle banche: gli istituti di credito che comprano titoli di stato italiani, per esempio, dovranno accantonare maggiori riserve rispetto agli istituti che comprano titoli tedeschi. Finora invece il regolatore attribuiva un rischio pari a zero a tutti i titoli di stato europei.

Si potrà pure criticare la situazione attuale – davvero nessuno Stato può fallire? – ma è indubbio che seguire la strada proposta dalla Germania porterebbe a smantellare l’unica forma esistente di minima e implicita condivisione del rischio sovrano a livello europeo. Si tratterebbe, in altre parole, di un altro caso di ‘rinazionalizzazione’ del rischio. Per di più all’indomani di stress test e ricapitalizzazioni comuni decisi dalla Banca centrale europea e teoricamente condotti proprio per aumentare la ‘credibilità’ delle banche e la ‘fiducia’ reciproca tra i governi.

Sull’immigrazione, sulle banche e sul debito sovrano, il messaggio dominante rischia di essere ‘chacun pour soi’. È ancora verosimile lo scambio proposto dai paesi dell’Europa a guida tedesca, quello in base al quale più credibilità oggi sarebbe la chiave per ottenere una maggiore integrazione domani? Apparentemente la tendenza rinazionalizzatrice – in atto su tanti punti dell’agenda europea – sembra svuotare il significato di tale premessa. E il voto referendario di giugno sull’ipotesi di uscita del Regno Unito dall’Unione europea porta all’estremo tale logica centrifuga.

Non ci sarà più ‘credibilità’ che tenga o ‘fiducia’ degna di essere recuperata se un numero crescente di leader e cittadini europei rifiuteranno tout court una ‘migliore integrazione’ come obiettivo auspicabile. A questo punto gli europeisti e i riformatori, assaliti dalla realtà, devono tornare a riflettere su quanto disse nel maggio 2012 l’ex commissario britannico Peter Mandelson: ‘Siamo molto più bravi a dire come stabilizzare l’Eurozona che a spiegare perché e in vista di quali ragioni dovremmo farlo’. Occorre ragionare apertamente sul ‘perché’, ancora oggi, possa essere necessario e utile abbinare credibilità, fiducia e migliore integrazione a livello europeo, e smetterla di predicare pavlovianamente e nel vuoto su ‘come’ ciò andrebbe fatto.

* Marco Valerio Lo Prete è vicedirettore del Foglio