Donne che votano e gay che si sposano: la lunga storia dei ‘contro-natura’
Marzo/Aprile 2016 / Diritto e libertà
L’argomentazione secondo cui questa o quella riforma sarebbe 'contro natura' non nasce certo oggi, ma si è proposta ciclicamente nella storia. È stato così per il voto alle donne e per i matrimoni misti, è così ancora oggi in Italia per i diritti delle famiglie arcobaleno.
Alla fine del 1869 Horace Bushnell, teologo protestante del Connecticut che l’Enciclopedia Britannica ricorda come il ‘padre del liberalismo religioso americano’, interveniva nel dibattito sul suffragio femminile pubblicando un saggio (circa duecento pagine) dal titolo piuttosto esplicito: ‘Women’s Suffrage: The Reform Against Nature’ [‘Il voto alle donne: la riforma che va contro la Natura’]. Quell’anno il governatore del Wyoming John Campbell aveva approvato la prima legge che garantiva, in territorio statunitense, il diritto di voto alle donne: un primo passo - scriveva il teologo Bushnell - verso ‘l’abisso’, verso ‘la fine della civiltà’.
Pur riconoscendo la possibilità delle donne di fare grandi cose in campo educativo e lavorativo, e tentando di smussare ogni possibile sfumatura di misoginia, Bushnell poneva al cuore della sua argomentazione la ‘naturale’ differenza (unlikeness) tra uomo e donna che rende quest’ultima estranea alla sfera della politica. La partecipazione femminile alla cosa pubblica si configurerebbe dunque come ‘contro-natura’ e la disorderly and mean history delle donne al potere lo dimostrerebbe, scriveva l’autore.
Oggi, almeno in Occidente, non si può che sorridere di tali affermazioni. Vale la pena ricordare, però, che all’epoca si trattava di convinzioni radicate e diffuse, parte di un sentire comune che si sarebbe spento solo nel corso del ventesimo secolo: le donne italiane avrebbero votato quasi ottant’anni dopo la pubblicazione del pamphlet di Bushnell. Quel che è più interessante è l’utilizzo religioso della categoria del ‘contro-natura’ per fini politici, o più precisamente per arginare l’estensione di diritti già esistenti a categorie che ne sono escluse.
Fino a qualche decennio prima che Bushnell pubblicasse il suo saggio, gli abolizionisti avevano dovuto combattere (senza peraltro riuscire ad estirparla definitivamente) l’idea che la schiavitù fosse giustificata dalla ‘naturale’ subordinazione e inferiorità dei neri. I quali, una volta resi liberi, sarebbero stati ‘naturalmente’ diversi (per non dire inferiori) e dunque separati. Le leggi che vietavano le relazioni e i matrimoni misti (le anti-miscegenation laws) sarebbero state dichiarate incostituzionali solo nel 1967, negli stessi anni in cui i primi bambini neri poterono iniziare a frequentare, negli Usa del Sud, le classi scolastiche fino a quel momento riservate ai bianchi. Anche in questi casi, l’argomento principe della discriminazione era basato sulla categoria - ancestrale, potremmo dire - del ‘contronatura’. Repulsive, repellente, veniva definita, dai più violenti difensori della segregazione, la possibilità che neri e bianchi si unissero sessualmente, per non dire in matrimonio.
Oggi, almeno si spera, si guarda alla segregazione razziale come a una brutta pagina della storia occidentale, nonostante la ciclica apparizione di rigurgiti di razzismo nell’avanzato Occidente. Ma la categoria del ‘contro-natura’ trova nuove applicazioni.
Nel febbraio del 2016, il ministro dell’Interno della Repubblica Italiana, Angelino Alfano, dichiarava che la sua opera di limatura della ‘legge Cirinnà’ sulle unioni civili - ovvero lo stralcio della cosiddetta stepchild adoption e la cancellazione dell’obbligo di fedeltà per le coppie omosessuali - aveva impedito il riconoscimento di pratiche ‘contro-natura’. Sebbene Alfano si riferisse alla possibilità di due uomini o due donne di concepire e allevare un figlio, la parola era di certo un voluto rimando alla più generica definizione dell’omosessualità in se come fatto ‘contro-natura’. Argomentazione che d’altronde non è raro riscontrare nel mondo cattolico - e nella destra - tra i più accesi sostenitori della cosiddetta ‘famiglia tradizionale’.
Non erano in pochi, al Family Day dello scorso gennaio, ad esibire cartelli in cui le coppie gay erano liquidate come uno ‘sbaglio’ che nessuna legge avrebbe potuto rendere ‘normale’. Stabilire ciò che è naturale e ciò che non lo è diviene dunque l’argomentazione ultima per stabilire ciò che può essere anche legittimo. I diritti non sono un fatto umano, ma naturale (e dunque, in ottica religiosa, divino) sul quale la società non può nulla, a meno che non intenda ‘snaturare’ se stessa.
Sarebbe banale, seppur necessario, ricordare che l’esistenza di rapporti sessuali e affettivi omosessuali, oltre a essere da sempre parte dell’esperienza umana, è riscontrabile in un numero indefinito di specie animali, il che la rende di per sé un fatto molto più ‘naturale’ di antiche costruzioni ‘sociali’ (e dunque ‘umane’) come il matrimonio e la famiglia mononucleare.
Due uomini o due donne che si battono per vedersi riconosciuto lo status di famiglia, con il conseguimento di quelle stesse tutele che lo stato garantisce ai loro concittadini eterosessuali, manifestano un’aspirazione tanto legittima quanto quella al suffragio femminile. E combattono contro gli stessi nemici, generalmente. Ora, la questione delle coppie gay presenta una ulteriore complessità - è vero - rispetto al voto delle donne o al matrimonio interrazziale. Ovvero: la biologica (e pertanto, in questo caso, ‘naturale’) impossibilità di due uomini o due donne di riprodursi a seguito di un rapporto sessuale. È questo un fatto certamente naturale, e non c’è bisogno che a spiegarlo sia Angelino Alfano o chi per lui. La ‘natura’ però, con buona pace del Family Day, lì si ferma.
Senza volersi addentrare nella spinosa questione delle tecnologie riproduttive (che coinvolge non solo gli omosessuali, ma anche gli eterosessuali che per motivi ‘naturali’ non riescono ad avere figli), bisognerebbe chiedersi se il fatto che un bambino - una volta nato - sia poi cresciuto da due uomini o due donne non sia altrettanto ‘naturale’ del fatto che sia cresciuto dai nonni, da uno zio, da un’altra famiglia o da una comunità di suore. Le forme di organizzazione sociale sono fatti storici, non naturali, e sono pertanto soggette a costanti mutamenti: non necessariamente ‘avanzamenti’, ma certamente cambiamenti. A partire dalla famiglia, che nel corso dei millenni si è trasformata, oscillando tra forme allargate e ristrette, strutture tribali e borghesi, tra accordi patrimoniali e sogni romantici.
Quel che accade oggi in Occidente suggerisce che la famiglia omosessuale sia una forma organizzativa legittima e diffusa, culturalmente prima ancora che normativamente. Dagli Stati Uniti al Regno Unito, dalla Francia alla Grecia, il riconoscimento delle coppie omosessuali e dei loro diritti è ‘naturale’. Anzi, è ‘normale’, aggettivo che ha certamente più senso e che permette di sfuggire alla spirale teologica su cui si avvitano gli epigoni di Bushnell.
Nulla vieta ai conservatori sociali (che siano ispirati da visioni religiose o meno) di combattere contro tale ‘nuova normalità’. Con due suggerimenti, però.
Innanzitutto, riconoscere che oggi l’Occidente - quell’Occidente che gli stessi difensori della ‘famiglia tradizionale’ dicono di voler proteggere dalle aggressioni del terrorismo islamico - configura gran parte della propria identità proprio sulla difesa del pluralismo e della ‘parità dei diritti’ (alle donne, agli omosessuali, alle minoranze), ed è proprio per questo (non certo per i presepi o per i crocifissi) che è diventato bersaglio del fondamentalismo. Chiudere la frontiera dei diritti civili è una scelta ancor più grave della chiusura delle frontiere fisiche (motivata da ragioni di sicurezza): significa tener fuori l’Italia da una ‘Schengen immateriale’ che rende l’Europa uno spazio comune i cui cittadini godono delle stesse opportunità.
E poi, altro consiglio: leggere il pamphlet di Horace Bushnell e le anti-miscegenation laws del diciannovesimo secolo, per scoprire come chi oggi grida al ’contro-natura’ domani sarà, forse, un ‘naturale’ fossile della storia.
INDICE Marzo/Aprile 2016
Editoriale
Monografica
- Italia, l'ottimismo non basta
- Oggi in Europa scarseggia la ‘credibilità’, perfino più che in Italia
- Produttività del lavoro, il grande malato Italia
- Alla guerra dei decimali l’Italia rischia di capitolare
- Il mercato nello Stato
- L’Italia, un Paese allergico alla concorrenza
- Liberalizzare e privatizzare, la coppia del gol è ancora in panchina
- La giustizia civile e l’inefficienza italiana
- Il Titanic della ricerca italiana
Istituzioni ed economia
- Se la Brexit perderà, non sarà grazie alle concessioni di Bruxelles
- La regolamentazione dei partiti politici: luci e ombre
Scienza e razionalità
- Cultura e metodo scientifico: prendere Proteo per la gola
- Perché è difficile venire a capo dell'emergenza Zika