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Il premier italiano, sebbene sia da più parti considerato l’argine contro il populismo in Italia, spesso non ha esitato a farne propri i toni e persino gli argomenti, soprattutto in merito ai vincoli di bilancio nel contesto europeo. Il più recente scontro con la Commisione sulla “flessibilità” non deve stupire: è solo l’ultima di una innumerevole serie di uscite ed episodi, in cui egli ha mostrato, a un tempo, scarsa dimestichezza coi termini delle questioni trattate ed estrema disinvoltura nell’addomesticare ad usum delphini il messaggio spiacevole recapitato dalla realtà.

All’origine della visione di un’Europa austera e matrigna, visione che ha appunto ormai travalicato i confini dei partiti anti-europeisti, per diventare mainstream, c’è il confronto tra l’andamento economico del vecchio e del nuovo continente dopo la crisi del 2008-09, ove la netta sovraperformance della crescita americana è stata frettolosamente attribuita alla maggior spesa pubblica cui si sarebbe fatto ricorso oltreoceano. Già nel febbraio dello scorso anno, durante un vertice a Bruxelles, Renzi fece sapere che l’Europa avrebbe dovuto #cambiareverso, prendendo esempio dagli Stati Uniti e abbandonando l’austerità.

Peccato che la politica fiscale a stelle e strisce sia stata, al contrario, assai poco espansiva negli anni considerati: il deficit federale ha continuato a ridursi – di circa mille miliardi di dollari al 2015 – e l’amministrazione Obama ne ha persino fatto un titolo di merito. L’andamento della spesa (in rosso) e quello del Pil (in azzurro), non lasciano troppo spazio alle favole.

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Anche il cosiddetto “discretionary spending” si è mosso in una direzione ben precisa, fino ad assestarsi al di sotto della sua media di lungo periodo e spingendo ancora una volta la Casa Bianca a menar vanto di averlo diminuito “to its lowest level as a share of the economy since Dwight D. Eisenhower”.

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Non pago, a dicembre il presidente del consiglio ha riproposto lo stesso identico motivo polemico nell’interpretare il successo del Front National al primo turno delle elezioni francesi: l’ora di dire basta a quelle “[...] politiche economiche e impuntature tecnocratiche che sono il più grande alleato della Le Pen in Francia o di movimenti simili nel resto del continente. [...] Chi vuole bene all'Europa oggi lavora per cambiarne la direzione di politica economica, parlando più di crescita e occupazione che non di rigore e austerità. Negli ultimi sette anni gli Stati Uniti di Obama hanno scelto una linea diversa dall'Europa: i risultati in termini di posti di lavoro e crescita danno ragione agli americani, non agli europei".

Non limitandosi, dunque, a reiterare la fantasia del salvifico deficit spending americano, ma dipingendo la stessa Francia come una vittima dell’austerità, cosa che non trova il minimo appiglio nei dati

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Francia la cui spesa pubblica, anzi - definita dal Fondo Monetario “critically high” - nel 2014 ha toccato il record del 57.5% su Pil, di undici punti superiore alla media dell'Eurozona.

Quali sarebbero allora le politiche economiche e le rigidità tecnocratiche grandi alleate di Marine Le Pen? Forse impedire che Parigi faccia esplodere il deficit e il debito fino ai livelli ellenici? Ché solo in tal senso iperbolico si potrebbe ravvisare una minima aderenza alla realtà nell'intervento del premier. Quale sarebbe il progetto strategico di Renzi per l'Europa? Quale il “grande ideale” oltre i “pacchetti di regole”? La perentorità di certe affermazioni non appare sufficiente a occultarne la vacuità, si direbbe.

E, poi, l’Italia, che è il vero problema, Italia che il premier sta conducendo a una scommessa imprudente e pericolosa: un paese dal debito pubblico ben conosciuto nella sua preoccupante mole, dallo spazio fiscale già praticamente nullo in caso di rinnovati problemi congiunturali, che divora i commissari alla spesa come Crono divorava i suoi figli, e che, tuttavia, non solo decide di approntare una manovra pro-ciclica durante una fase (debolmente) espansiva, ma di farlo per alimentare principalmente la spesa corrente. Il tutto mentre all’improvviso, frutto dell’ingiustificato ottimismo dei decisori pubblici nel recente passato, minacciosi scheletri fuoriusciti dai bilanci di molte banche rischiano di riportare l’attenzione internazionale sulla nostra situazione finanziaria, mentre l’Ilva di Taranto danza sul baratro, tenuta in precario equilibrio da un prestito ponte di dubbia legalità europea - e che finirà in ogni caso incenerito in pochi mesi, come avvenne per Alitalia - e nubi si addensano sulla ripresa globale.

Le esternazioni di Renzi, sempre più frequenti, hanno una valenza tutta domestica: servono a consolidare, presso un’opinione pubblica solitamente poco incline ad amare le verità spiacevoli, l'Europa come fantoccio polemico, contro i cui ragionevoli richiami alla prudenza scagliarsi poi per giustificare una legge di stabilità costruita sulla produzione di nuovo deficit e con le elezioni amministrative di primavera nella testa, in assenza, ancora una volta, di qualsiasi volontà politica di tagliare la spesa; con sé, la sola, flebile e temeraria speranza che nulla vada storto in Cina o in Medio Oriente o in un altro dei molti fronti di rischio globale.

Così, nondimeno, la retorica anti-europeista, che a parole si dice di voler combattere, passo passo ci trascina verso di sé.