La bancarotta di Detroit, travolta dalla corruzione politica e sindacale e da un bilancio insostenibile, usato per comprare e consolidare il consenso di una classe dirigente inamovibile. Era un simbolo degli Usa, sembra una metafora dell'Italia. Molti pensano che il bailout sia inevitabile, ma potrebbe non salvare una città alla deriva.

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C'è stato un periodo, lo scorso secolo, in cui il cuore pulsante dell'industria a stelle e strisce era collocato nel freddo Midwest, sulla regione dei laghi al confine con il Canada, nello stato del Michigan. Quel cuore pulsante era Detroit: la Mecca mondiale dell'automotive, la città che ha dato i natali al gruppo General Motors, nonché il tetto comune di Chrysler, Chevrolet, GMC e tanti altri marchi di prestigio. The Motown: così la chiamano i suoi abitanti, a ribadire come la parabola della città di Detroit non possa essere scissa dalla storia dei motori che vengono prodotti nelle sue fabbriche, in molti casi divenuti leggendari ed emblematici dell'american way of life.

Motown, come la casa discografica che fece di Detroit la capitale musicale degli States, il centro in cui Marvin Gaye, Stevie Wonder, Smokey Robinson, Michael Jackson, Diana Ross, Sam Cooke, Lionel Richie e tanti altri pesi massimi dello star system affluivano per incidere album che avrebbero venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo e contribuito all'integrazione e alla formazione dell'identità culturale degli afroamericani negli anni dei primi veri processi di integrazione razziale.

Musica e motori a parte, Detroit non è mai stata una città cosmopolita e godibile. Al contrario, non ha la storia di Washington, la cultura di Boston, il sole della California o il dinamismo di Manhattan. Detroit è fredda, inospitale, grigia come i suoi capannoni, immersa nel degrado urbano, preda dello smog e delle tante, troppe situazioni di povertà e marginalità dei suoi sconfinati sobborghi, quartieri per niente raccomandabili dopo il tramonto. Ma sta bene: Detroit non è stata fondata per diventare la San Francisco del lago Michigan. A Detroit è spettato, per quasi un secolo, l'oneroso compito di trainare l'industria automobilistica della prima potenza economica mondiale, e per un discreto arco di tempo – quello degli anni d'oro – ha assolto magistralmente al suo incarico.

La rotta si è invertita quando il modello improntato al capitalismo di relazione e a certo dirigismo economico di Washington ha cominciato a vacillare, facendo del settore automobilistico il grande malato d'America e trascinando l'economia della Motown nel baratro. Passata dal milione e mezzo di abitanti del 1950 alle 700.000 anime del censimento 2012, Detroit è l'emblema della caduta del gigante a stelle e strisce: un tempo titano, oggi leviatano dai piedi d'argilla. Oltre ad esserne simbolo, la grande D sembra quasi essere diventata premonitrice delle sorti dell'intera nazione. Detroit ha dichiarato bancarotta sotto il peso di un enorme debito pubblico, con 18 miliardi di obbligazioni municipali che non saranno ripagate e 13.000 dipendenti pubblici (1 per ogni 55 abitanti: rapporto decisamente più mediterraneo che americano) lasciati senza stipendio. Il tutto soltanto un paio di mesi prima che il governo federale chiudesse per qualche tempo i battenti per il mancato accordo con il Congresso sul budget annuale, causando l'interruzione di tutti i servizi pubblici considerati di non vitale importanza e sospendendo la retribuzione a ben 800.000 lavoratori.

"We almost lost Detroit", cantava nel '77 Gil Scott-Heron, soulman della vicina Chicago. Oggi la Motown l'abbiamo persa davvero, con una tragedia annunciata, epilogo di un declino economico, finanziario, occupazionale, urbano e anche immobiliare lungo quasi mezzo secolo. Una tragedia che non può essere compresa se non a partire da alcune considerazioni su quanto è andato storto nella gestione dell'economia e delle politiche industriali non solo di una città, ma di un intero paese.

Da un lato, infatti, se la Hockeytown (soprannome dovuto ai mitici Red Wings, tra le squadre più titolate della National Hockey League ed ennesimo simbolo di un passato glorioso) ha indubbiamente risentito della lenta agonia dell'automotive americano, dall'altro le ragioni profonde della bancarotta del suo municipio sono piuttosto da rintracciare nel declino della classe politica che, a partire dagli anni '70, si è succeduta al suo governo. Corruzione, demagogia, sperpero di denaro pubblico e populismi per un facile adescamento elettorale hanno costretto – in un lasso di tempo nemmeno troppo lungo – il municipio a dichiararsi insolvente. A tutto questo si deve aggiungere l'emergenza occupazionale, l'esodo di massa dalla città da parte dei residenti e il dramma del degrado immobiliare dovuto all'abbandono dei quartieri. Ma ciò non toglie che Detroit – seppure tra mille difficoltà – sarebbe ancora in piedi da un punto di vista finanziario se ad aggravare il peso delle scelte di politica industriale fallimentari intraprese dal governo federale non ci fosse stato un diffuso (e accettato) malcostume della cosa pubblica a livello cittadino.

A un'analisi più attenta, in realtà, appare chiaro come le cause delle due sciagure che affliggono la Motown – quella del declino delle sue industrie e quella della sua bancarotta – abbiano comune origine nella tendenza dell'America degli ultimi decenni ad uniformarsi sempre più, in materia macroeconomica, al modello interventista in voga in molti paesi del Vecchio Continente.

Benché il pubblico italiano sembri accorgersene solo da quando, nel 2009, Fiat ne ha acquisito parte del pacchetto azionario, un colosso come Chrysler non è nuovo a guai di carattere finanziario. Già nel 1979, di fatti, il terzo produttore di auto degli States – sull'orlo del fallimento – venne salvato con un bailout da 1.5 miliardi di dollari. Terminata la crisi, Chrysler seppe risollevare le proprie sorti e nel 1983 era già stata in grado di estinguere il debito con il Tesoro, che con gli interessi incassò ben 350 milioni. In questo modo, però, si apriva il vaso di Pandora, infrangendo così il sacrosanto principio della terzietà del governo rispetto alle vicende delle aziende private – anche e soprattutto per non costituire situazioni di concorrenza sleale – e si profilava un pericoloso precedente che avrebbe legittimato, negli anni a venire, la tendenza delle cosiddette aziende "too big to fail" all'azzardo morale a spese dei contribuenti. (Cronologia dei bailout del governo americano dal 1970 ad oggi).

Con il principio "too big to fail", ormai ampiamente accettato, l'America dovette fare i conti anche nel 2009, trent'anni dopo il primo bailout in soccorso dell'automotive, quando il governo federale si vide costretto a scongiurare una nuova catastrofe del settore automobilistico con un prestito di salvataggio di circa 25 miliardi di dollari in soccorso di Chrysler, Ford e General Motors. Il denaro per il bailout, per rimanere in tema di azzardo morale, fu racimolato dal fondo di salvataggio da 700 miliardi stanziato per impedire il fallimento degli istituti di credito coinvolti nella crisi finanziaria del 2008.

Parallelamente, la crescente legittimazione culturale dell'interventismo economico – facendo leva sui sentimenti e sulle necessità di un elettorato che da sempre convive con situazioni di degrado e marginalità – ha agevolato l'ascesa ai vertici della Motown di una classe dirigente corrotta e incline a mantenere il proprio posto di comando comprando consensi a spese della collettività. Come nel frattempo, dall'altra parte dell'Oceano, ammoniva Margaret Thatcher, un sistema del genere può reggere soltanto finché non si rimane a corto dei soldi degli altri.

Su tutti, spicca un personaggio in particolare: Coleman Young, sindacalista di colore, eletto sindaco nel '73 e rimasto in carica per un ventennio; dato, quest'ultimo, che rende ancora più "mediterranee" le sue vicissitudini alla guida della città. Salito sul trono appena terminata la stagione delle rivolte afroamericane di fine anni '60, Young ha strumentalizzato ed esasperato la questione razziale e si è garantito la rielezione sistematica attraverso accordi sindacali oltremodo generosi e trasformando la pubblica amministrazione della città in un poltronificio dalle logiche clientelari.

È in questo clima di malcostume che leader dei sindacati, dirigenti pubblici e capi delle forze dell'ordine si sono arricchiti ai danni di una cittadinanza che, per un terzo del suo totale, vive al di sotto della soglia di povertà, in una delle realtà urbane con il più alto tasso di criminalità e le scuole peggiori d'America. Fino a due anni fa, agli agenti di polizia era concesso andare in pensione a 55 anni senza aver mai destinato un centesimo in contributi, mantenendo l'85% dello stipendio e con un adeguamento al costo della vita del 2,25% annuo (fonte Wall Street Journal). Attualmente, un ex sindaco, un ex tesoriere e diversi amministratori dei fondi pensionistici della città sono indagati per corruzione. La cronaca cittadina pullula di scandali, come le storie di tangenti presentate per regalo di compleanno a cene di gala in cambio di promozioni e aumenti di stipendio.

Una fetta consistente dell'opinione pubblica americana è convinta che per salvare la città sia inevitabile l'ennesimo bailout miliardario a base di denaro pubblico. In realtà, Detroit ha già ampiamente dimostrato di non essere una realtà riformabile con forme di finanziamento il cui unico effetto è quello di tenere in vita il vecchio e corrotto establishment cittadino e la sua rete di clientele. Lo scorso anno, di fatti, la città ha ricevuto ben 228 milioni di dollari in sussidi federali da parte del governo e altri 137 milioni dallo stato del Michigan. Nel corso dell'ultimo decennio, inoltre, ha preso in prestito 1,6 miliardi di dollari al solo scopo di riuscire a finanziare le pensioni. Cifre mostruose, eppure gli unici cambiamenti registrati dalla Motown sono in negativo. Nessun segnale di ripresa.

Quella del declino di Detroit è una storia che vale davvero la pena raccontare, perché le vicende di una città che si adagia sugli allori del proprio boom economico fino a ridursi ad un inferno ricordano da vicino la parabola di un'Italia alla frutta e ci insegnano che, molto spesso, le ragioni che portano una nazione a raschiare il fondo del barile sono le stesse in ogni capo del mondo. I suoi sindacalisti, intenti non a tutelare il lavoro ma le rendite di posizione delle corporazioni che rappresentano, ci ricordano che una radicale riforma del mercato del lavoro non può più attendere. I suoi dipendenti pubblici, assunti al kilo e per ragioni clientelari, somigliano così tanto ai forestali calabresi e ai dipendenti della Regione Sicilia. La sua classe dirigente, autoreferenziale e parassitaria, potrebbe andare a braccetto con la nostra.

A fare compagnia alla metropoli del Michigan ci sono Vallejo, piccolo centro della California, e Central Falls, nel Rhode Island. Entrambe le città, di fatti, sono state costrette al fallimento per mancanza di fondi con cui foraggiare sistemi pensionistici divenuti ormai insostenibili e accordi sindacali che Standard & Poors, nel caso di Vallejo, ha definito "finanziariamente imprudenti". È il nuovo volto dell'America che sta lentamente ma progressivamente perdendo l'identità e i valori di una società che un tempo, con il buon senso e una sana cultura economica condivisa da buona parte della popolazione, riusciva a tenere a freno le spinte demagogiche e le derive parassitarie che hanno già infettato il tessuto produttivo di molte realtà europee, Italia in testa.

Da Motown a Ghost Town: non serve passeggiare per le sue strade per rendersi conto che Detroit è diventata una città fantasma, un posto dove non si vorrebbe mai vivere, lavorare e far crescere i propri figli. Basta osservare immagini come quelle che i fotografi più in voga del momento si precipitano a Detroit per scattare. L'auspicio è che la sorte delle sue biblioteche, delle sue stazioni ferroviarie, delle sue industrie, delle sue scuole, dei suoi teatri e dei suoi edifici di culto non sia il presagio del destino di una nazione intera.