La sinistra italiana ha sempre avuto rapporti "conflittuali" con l'idea di leadership, al punto di ricondurre ogni personalità marcata sempre a Mussolini. Fu così per Craxi, è stato così soprattutto per Berlusconi. Succederà anche con Renzi? O la sinistra è pronta per superare il tabù?

leopolda13

La sinistra italiana ha sempre avuto problemi a confrontarsi in maniera serena con la leadership. Lo testimonia anche il recente scambio via editoriali fra Eugenio Scalfari ed Ernesto Galli della Loggia sul ruolo del capo, una figura che secondo il fondatore di Repubblica assomiglia poco al leader ma anzi a quella di un dittatore. Cioè a uno come Mussolini, “del quale Bettino Craxi fu – scrive Scalfari – soltanto una lontana e breve copia fantasmatica e Berlusconi una farsa comica durata tuttavia vent’anni come il suo lontano predecessore”. Il sottinteso di tutto il ragionamento è che Matteo Renzi, il cui profilo ancora deve emergere meglio nella sua piena maturità, appartiene a questo filone politico. Le parole di Scalfari sono il concentrato del tormentato rapporto complicato della sinistra con la leadership, la cui riflessione in Italia è appunto viziata dalla storia novecentesca. La parola leadership viene associata al fascismo, a Mussolini, a Berlusconi. E oggi che Renzi è diventato segretario del Pd, il tema-tabù torna d’attualità.

Il sindaco di Firenze riprende in mano il filo spezzato di Walter Veltroni. I due da questo punto di vista hanno molto in comune. Ed è sufficiente vedere in che cosa consisteva l’operazione veltroniana per capirlo. Come ha scritto Mauro Calise nel suo libro “Il partito personale” (Laterza), Veltroni cercò di “attingere a due ingredienti chiave della personalizzazione: il decisionismo dall’alto e la partecipazione dal basso. Veltroni ha puntato le sue chance sulla centralizzazione del messaggio e, più in generale, di ogni forma di comunicazione come esclusiva prerogativa del leader, personalizzando il rapporto con i media e l’elettorato”. Renzi adotta lo stesso metodo. È un accentratore, fortemente decisionista, che evoca costantemente un rapporto diretto con l’elettorato e la frantumazione dei corpi intermedi quali partiti, sindacati e organizzazioni di rappresentanza.

È il modello della rappresentanza, dice Renzi, a essere entrato in crisi. La parentesi bersaniana a sinistra – durata non poco a dire il vero – voleva essere la risposta del “collettivo” all’ascesa del “capo”. Ma anche Bersani in fondo, da segretario del Pd e aspirante presidente del Consiglio, dovette cedere alla famigerata personalizzazione, solo che come tutto ciò che è bersaniano, era una cucchiaiata (un po’ di personalizzazione, un po’ di lavoro, un po’ di lotta all’evasione, un po’ di contrasto alla corruzione). Il modello di leadership renziano, cui corrisponde anche un modello di partito omogeneo e compatibile, è totalmente diverso. Il leader prende voti, ci mette la faccia, decide. La sua parola è l’ultima, il “collettivo” non esiste (no, neanche la segreteria di partito è un “collettivo”). Domenica 29 dicembre, in un’intervista alla Stampa, Renzi ha reso perfettamente il senso della propria leadership quando ha rivendicato l’investitura ottenuta dalle primarie e una diversità politica, finanche antropologica, da Enrico Letta e Angelino Alfano: “Io sono totalmente diverso, per tanti motivi... Io ho ricevuto un mandato popolare, tre milioni di persone che mi hanno votato perché hanno condiviso quel che ho promesso che avrei poi fatto”.

Sta insomma nascendo il PdL, Partito della Leopolda. Fu Renzi stesso, durante l’ultima convention nella stazione fiorentina, a dire che l’anno prossimo avrebbe fatto il punto di quanto realizzato da segretario del Pd, se avesse vinto le primarie, cosa che poi è successa, davanti al popolo della Leopolda. Proprio a dimostrare quanto il suo partito sia diverso dal Pd visto fino ad oggi. Un partito che non si riunisce al Nazareno, sede romana del Pd, ma sul mitologico “territorio” che si contrappone alla burocrazia della Capitale. “Immaginiamo un partito più a rete che a piramide – ha spiegato recentemente Renzi – dove mi interessa soprattutto cosa vogliamo fare, dove posso avere una funzione di ascolto che con l’Information Technology è molto più semplice, un partito più pensante che pesante, non un partito ministero. Una vola si sarebbe detto un partito che recupera l’egemonia culturale, è un’espressione forte, ma voglio un partito che non ha paura di proporre l’agenda della discussione”. Ricordiamoci i due elementi della personalizzazione, il decisionismo dall’alto e la partecipazione dal basso. Il decisionismo muscolare di Renzi lo si è visto in azione quando ha sacrificato pezzi della sua squadra che fino a poco tempo prima sembravano centrali e quando – in alcune vicende fiorentine, da sindaco – ha chiuso dibattiti decennali dalla mattina alla sera, come quello sulla pedonalizzazione di piazza del Duomo. La partecipazione dal basso è invece espressa dal partito “a rete”, dove l’ascolto è corroborato dall’utilizzo, per esempio, dei social network. La tecnologia è spesso al servizio della disintermediazione. Franklin Delano Roosevelt si inventò le fireside chats, le chiacchierate al caminetto trasmesse via radio a milioni di cittadini. Un modo, per il presidente, per entrare in contatto con l’opinione pubblica. Le fireside chats di Renzi avvengono su Twitter, dove il sindaco-segretario dialoga con gli elettori.

Renzi nelle vesti di macroleader – per usare un’espressione di Calise presa dal suo ultimo libro “Fuorigioco” (Laterza) – deve però scontrarsi con il paradosso: mentre infatti a sinistra la diffidenza per la leadership si faceva forte, in giro per l’Italia nascevano schiere di micronotabili che hanno dato vita alle correnti e portato alla paralisi dell’attività politica dei Dem. Wikipedia nel Pd ne conta una ventina; la Dc, nel massimo della sua frantumazione, ne aveva circa dodici. Il Partito della Leopolda nasce, nelle intenzioni del suo leader, per rimuovere queste dinamiche micropersonali che rendono più pesante la struttura del partito, mentre il Pd a trazione renziana vuole essere super leggero. Fin dal suo finanziamento. Renzi non vuole usare fondi pubblici ma risorse private, mettendo in contatto diretto – di nuovo – il leader con l’opinione pubblica attraverso le microdonazioni via Internet. Un metodo sperimentato con successo da Obama nel 2008, all’epoca della sua prima elezione. Se funzionasse, sarebbe una rivoluzione non da poco, in un Paese in cui i partiti hanno perso la loro legittimità ma si sono trasformati in agenzie pubbliche, sviluppando una capacità di resistenza grazie allo Stato che ha offerto quelle risorse pubbliche che da tempo non sanno più estrarre dalle loro vecchie basi sociali.