35 anni prima di Stamina e dei plebisciti sul web, la politica seppe comprendere la differenza tra popolarità e responsabilità, e prevenire le reazioni di pancia di un popolo. Il risultato fu la legge che chiuse i manicomi, approvata sotto la minaccia di un referendum.

BasagliaMedia

C’era Andreotti al Governo: era la quarta volta e non sarebbe stata l’ultima. C’erano Tina Anselmi al Ministero della Sanità e Sandro Pertini che stava per essere eletto Presidente della Repubblica al posto di un dimissionario Giovanni Leone. C’era un’Italia impaurita e tesa. C’era Aldo Moro nelle mani delle Brigate Rosse. E c’erano tre referendum da celebrare l’11 e il 12 giugno. Tra questi, uno proponeva l’abrogazione della legge manicomiale n.36 del 14 febbraio 1904, cioè proponeva di chiudere i manicomi.

Era il 1978: la discussione sulla chiusura dei manicomi andava avanti da anni e numerose erano state le sperimentazioni sul territorio nazionale. Tra i partiti la convergenza era ampia: l’istituzione manicomiale, con la sua disumanizzazione della malattia mentale e del malato, andava distrutta. Perché la legge del 1904 era una legge di ordine pubblico, non una legge sanitaria, definiva il manicomio come il posto deputato alla vigilanza degli alienati cioè: cretini, deficienti, mentecatti, stupidi e idioti. E dentro ci finiva di tutto: ci finivano disabili, barboni, ragazze madri, prostituite. Quella che si voleva tutelare era la società, mentre la psichiatria serviva solo a contenere il malato, o qualsiasi cosa si volesse definire tale, rinchiudendolo lontano dagli occhi dei normali come polvere sotto al tappeto.

Per cui benvenga il referendum, direte voi. Invece no. Se i politici, dai democristiani ai comunisti, erano d’accordo sull’abrogazione dell’istituto manicomiale, la paura era che non lo fossero i cittadini. Che a furor di popolo non si sarebbe abrogato un bel niente. E che la salute mentale potesse restare una questione di polizia.

Così si affrettarono i lavori: Amintore Fanfani, presidente del Senato, e Pietro Ingrao, presidente della Camera, un democristiano e un comunista, si accordarono per accelerare l’approvazione della legge 180 (che poi ci siamo abituati a chiamare Legge Basaglia), in modo da evitare la consultazione popolare. Ed è così che il 13 maggio di quell’anno il Parlamento italiano approvò a larghissima maggioranza la chiusura definitiva dei manicomi: quattro giorni prima, nel portabagagli di una Renault 4, era stato trovato il cadavere di Aldo Moro.

Se sui manicomi avesse deciso il popolo, spaventato dal clima di tensione e dal terrorismo, avrebbe quasi certamente vinto il No. Così al popolo non si lasciò la parola. Decise la classe politica, insieme a quella medica. Eppure nessuno oggi, tantomento gli addetti ai lavori, e nonostante i tanti problemi tuttora esistenti nell’assistenza psichiatrica in Italia, mette in dubbio che l’abolizione della legge del 1904 sia stata una conquista di civiltà.

Sei mesi dopo quel 13 maggio, ne arrivava a termine un’altra, ancora più importante: la legge 833 di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Una volta approvata, un istante prima di Natale, la parte sulla salute mentale finalmente poté confluire in una legge in cui si parlava di salute, salute e basta. La legge 180 ebbe quindi vita breve, anche se noi continuiamo a pensarla come una cosa a sé. Mentre la legge 833 è ancora tra noi e festeggia in questi giorni i suoi trentacinque anni.

L’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale era, nelle parole del presidente Pertini, “imprescindibile per l’attuazione del dettato costituzionale”. Perché nel 1948 la Costituzione aveva messo nero su bianco che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, ma anche come “interesse della collettività”. Interesse della collettività significa che la salute di ciascuno di noi è un pezzetto del benessere di tutti: significa attenzione per l’ambiente e i luoghi di vita e di lavoro, per gli indigenti e i loro disagi, per le questioni di salute pubblica. Tutto questo, da quel 23 dicembre, è compito dello Stato. Con la legge 833 si decide che gli italiani, il padrone e l’operaio, il contadino e il magistrato, devono avere le stesse possibilità di cura, pagate con la fiscalità generale. Anche la legge 833 fu una vittoria della politica e fu approvata con il consenso di quasi l’85% del Parlamento. Votarono contro soltanto i liberali e i missini mentre i repubblicani si astennero.

Eppure non era un momento facile per la nostra democrazia. La relazione accorata di Danilo Morini, democristiano, al momento del voto, si concludeva così: “Viviamo oggi anni difficili, come quelli del dopoguerra che però erano contraddistinti da una fiduciosa speranza di un positivo avvenire per il nostro Paese. Vediamo con questa approvazione di concorrere a ridare in un momento difficile e tormentato una nuova speranza di ulteriore positivo avvenire per il nostro Paese”. E Giovanni Berlinguer, che annunciava il voto favorevole del partito comunista, aggiunse: “dobbiamo applicare questa riforma in condizioni più sfavorevoli, a causa della crisi economica, rispetto al passato”, per questo la legge si presentava come “un grande banco di prova per la società italiana”: perché era solo l’inizio di un percorso lungo e complicato, che ha avuto non pochi problemi, anche attuativi, e che ha poi portato negli anni novanta alla riforma della riforma, e alla riforma della riforma della riforma.

La sostanza non cambia: il nostro paese si stava dotando di un sistema sanitario ispirato ai principi di uguaglianza, equità, solidarietà e globalità, abbandonando le vecchie e sgangherate mutue del dottor Guido Tersilli, il medico di Alberto Sordi, peraltro indebitate fino al collo. Finalmente, si attuava quell’articolo 32 della Costituzione che da trent’anni esisteva solo sulla carta.

Oggi probabilmente considereremmo paternalistica la decisione di impedire una consultazione popolare per lasciare la scelta alla politica. E paternalistica sarebbe la parola più educata pronunciata a proposito. Oggi, stando alle cronache di questi mesi, ci sarebbe la richiesta di formare una commissione bipartisan, andando a cercare medici favorevoli alla reclusione manicomiale in stile settecentesco, in una parodia grottesca della democrazia. Oggi voteremmo su Youtube o su un social network, esprimendo pareri non sempre del tutto competenti, perché la competenza non è più una virtù. Ma oggi siamo anche tutti più in grado di informarci e di parlare, e non è certo un fatto negativo. E comunque, per fortuna, la storia non si fa con i se e con i ma.

Fa però impressione rileggere a distanza di trentacinque anni il discorso che allora pronunciò Pietro Ingrao, soprattutto per l’involontaria attualità delle sue conclusioni: “Insistere sul lavoro che svolgiamo e anche sulle funzioni nuove che siamo chiamati ad assolvere vuol dire anche guardare con spirito di verità alla grande e difficile questione di ciò che è... la funzione di rappresentanza generale, oggi, al finire degli anni Settanta, in una società italiana e in un mondo profondamente cambiati e dinanzi a un ruolo del tutto nuovo e complesso dello Stato... In questo senso credo di poter dire che davvero confonde le idee degli italiani quel rozzo qualunquismo che tende a presentare la vita politica come il ripetersi di una solita, antica, eterna truffa, fatta solo a scopo di prevaricazione e di lucro”.

Perché esiste anche una politica che sa prendere in mano le situazioni difficili e prevenire le reazioni di pancia di un popolo. E perché sulle questioni su cui c’è una ovvia asimmetria delle informazioni, cioè in cui c’è qualcuno che sa e qualcuno che non sa, la scelta a furor di popolo è probabilmente quella sbagliata. Trentacinque anni dopo dovremmo cominciare a riconoscerlo.