Un'introduzione agli approfondimenti di Pietro Monsurrò sulla spesa pubblica, che presentiamo nella seconda parte della monografia di questo mese. Domanda: dopo avere analizzato la spesa nel dettaglio, riuscite ancora a stupirvi se vi dicono che l'economia e la società italiane sono in stagnazione da vent'anni?

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È interessante leggere e commentare queste analisi della spesa pubblica italiana preparate da Pietro Monsurrò, innanzi tutto per il fatto di realizzare il sacrosanto motto latino del "in medio stat virtus". Intendo dire che, nella maggior parte dei casi, questi temi importanti ma non semplicissimi vengono trattati o secondo gli estremi dell'eccessiva divulgazione, oppure cadendo in quelli dell'eccessivo tecnicismo. Nel primo caso si sceglie uno stile troppo breve ed eccessivamente "giornalistico", il quale ha una particolare propensione per l'aneddoto divertente ma non necessariamente rappresentativo. Nel secondo caso, il livello di dettaglio soddisfa il ricercatore e l'esperto, ma scoraggia la larga parte dei lettori interessati che non hanno il bagaglio di conoscenze necessario, e talora rischia di trascurare la visione di insieme. Qui Monsurrò sceglie una felice via intermedia.

Il meglio che si può sperare di ottenere nell'analisi di fenomeni economico-sociali consiste naturalmente nell'individuare le cause di questi, la loro direzione e la loro forza. Intendo dire che dati due fenomeni X e Y, il non plus ultra consiste nello stabilire se X ha effetti su Y, oppure viceversa, oppure i fenomeni non sono collegati, oppure entrambi sono spinti da un altro fenomeno Z a cui non avevamo pensato all'inizio. Tuttavia, prima ancora di buttarsi nel bel progetto di identificare i rapporti causali, è necessario fare un doveroso passo indietro, e occuparsi del meno ambizioso – ma non per questo meno necessario - obiettivo di descriverli, questi benedetti o maledetti fenomeni economico-sociali.

Il lavoro di Monsurrò va esattamente in questa direzione descrittiva, analizzando sei macro-aree della spesa pubblica italiana, e confrontandole con quanto accade nei principali paesi europei, cioè Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Il confronto con paesi simili è cosa buona e giusta, perché banalmente permette di arrivare a qualche conclusione sensata a proposito di domande che sembrano banali, ma sono terribilmente importanti (specialmente in un paese oppresso dal debito pubblico come il nostro): "la spesa pubblica nel settore X è eccessiva? Insufficiente? Adeguata?"

Anche se stiamo parlando del confronto con quattro paesi non molto dissimili dall'Italia, nessuno può ritenere che un confronto puro e semplice possa fornire risposte definitive, poiché bisogna sempre tenere presente l'effetto di fattori confondenti, i quali "sporcano il confronto".

Ad esempio accade che – includendo nel computo l'Arma dei Carabinieri - l'Italia ha più agenti di polizia della Germania, che pure ha una popolazione di quasi 20 milioni più numerosa. Ne consegue le spese di polizia pro-capite collochino l'Italia sopra la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, e leggermente più sotto della Spagna. Possiamo concludere che l'Italia spenda troppo nel capitolo "polizia"? Il fattore "confondente" in questo caso è la criminalità, e specialmente quella organizzata, che è molto più diffusa in Italia che in altri paesi, e dunque può contribuire a spiegare questo dato pro-capite così elevato. Vedete bene come siamo partiti da un'analisi descrittiva, ma si arriva rapidamente a ragionare di fattori confondenti, cioè si entra decisamente nel regno dell'analisi causale. O perlomeno si mette un piede dentro.

Un'altra premessa importante: per farsi un'idea dell'ammontare della spesa pubblica in una determinata area di intervento, è necessario rapportare questa spesa al Prodotto interno lordo (Pil) di quell'anno, così da ottenere una stima dell'importanza relativa di tale spesa rispetto al reddito annuo prodotto. E la stessa cosa si fa con gli altri paesi oggetto del confronto.

Siete esosi e volete ragionare sulle cifre assolute? Beh allora dovete tenere a mente che l'un per cento del Pil italiano è all'incirca 16 miliardi di euro, per cui una spesa di 160 miliardi (ad esempio) corrisponde a un dieci percento del Pil stesso, cioè una percentuale con uno zero in più rispetto all'iniziale un per cento: quando si discute di cifre che differiscono all'incirca per uno zero in più (10 contro 100 eccetera) si dice che le cifre differiscono per un ordine di grandezza. Due ordini di grandezze se ci sono due zeri di differenza e così via. È il linguaggio degli ingegneri (sempre siano lodati) e prima imparate a utilizzarlo, meglio è. Perché? La ragione è presto detta: in questo modo si può capire quanto un certo intervento sulla spesa pubblica – o sulla tassazione - sia importante in termini relativi. Ad esempio, lo sgravio IRPEF introdotto dal governo Renzi non è lontano dall'un per cento del Pil.

La prima area di spesa pubblica di cui si occupa Monsurrò è quella dell'amministrazione generale dello stato, degli interessi sul debito, della difesa e dell'ordine pubblico. All'interno di questa area spicca il fatto che l'apparato legislativo, esecutivo, diplomatico, fiscale, finanziario italiano costi il 2,5% di PIL contro l'1,6% della Germania: quasi un punto di PIL in più. L'altra area di costi eccessivi è naturalmente la spesa per interessi, la quale risente pesantemente del livello abnorme del debito pubblico e di ogni andamento crescente nei tassi di interesse. La spesa per difesa non è elevata, è inferiore a quella di Francia e Gran Bretagna, ed è caratterizzata da una percentuale importante di costi per il personale.

La seconda area considerata da Monsurrò è quella della spesa per istruzione. In questo caso l'autore affianca all'analisi della spesa una breve ma esauriente analisi dei risultati dei test standardizzati, che permettono di confrontare la padronanza verbale, matematica e scientifica degli studenti dei diversi paesi in diversi stadi del processo educativo. Dal lato della spesa, il dato pro-capite mostra una parsimonia relativa nella spesa per istruzione in Italia, ma tale dato deve essere corretto per la percentuale di popolazione in età scolare, che in Italia è relativamente bassa a motivo dei tassi di natalità altrettanto bassi. Se si analizzano i diversi gradi di istruzione, si scopre che l'Italia non è messa male nel caso della scuola primaria e pre-primaria, sia dal punto di vista di una spesa non eccessiva che di risultati soddisfacenti nei test standardizzati. Il quadro diventa molto meno roseo nel caso delle scuole superiori, e decisamente preoccupante nel caso dell'istruzione terziaria, cioè dell'università: una percentuale di spesa sul Pil decisamente bassa rispetto ai paesi del campione, ed esiti decisamente insufficienti dal punto di vista della percentuale di popolazione laureata. Un dato costante in questo capitolo è il forte divario tra Nord, Centro e Sud, con il Sud fanalino di coda nei test standardizzati, a partire dal liceo.

La terza macro-area discussa da Monsurrò è la sanità, che deve essere valutata non solo in percentuale rispetto al Pil, ma anche messa in relazione con il Pil pro-capite, in quanto è probabile che la spesa sanitaria sia un cosiddetto "bene normale", cioè un bene il cui consumo cresce con il reddito degli individui. La peculiarità del sistema sanitario italiano è che si tratta in realtà di una costellazione di 21 sistemi sanitari regionali, di cui vanno valutati il costo e la qualità media del servizio. Sotto il profilo internazionale, l'Italia non se la cava molto bene, ad esempio andando a guardare lo Euro Health Consumer Index. Nel confronto "a cinque" l'Italia si colloca all'ultimo posto insieme alla Spagna.

Voi direte: ma come? Altri confronti basati sul tema della salute pongono l'Italia in una posizione decisamente migliore. L'argomento di Monsurrò è semplice e piuttosto convincente: la salute non dipende soltanto dall'efficienza e dall'efficacia del sistema sanitario, ma da una molteplicità di altri fattori. Se vogliamo valutare la sanità dobbiamo focalizzarci su di essa, per evitare – lo dico con parole mie – di crogiolarci sugli allori della dieta mediterranea. Per quanto concerne i confronti regionali, Monsurrò calcola la spesa pro-capite per regione e la presenta in una tabella insieme alla percentuale di anziani sempre per regione, in quanto una spesa pro-capite elevata può essere per l'appunto spiegata da una percentuale di anziani altrettanto elevata. Anche se esistono regioni che spendono molto e/o con risultati insufficienti in termini di LEA (livelli essenziali di assistenza), il sistema sanitario italiano non sembra secondo l'autore l'area più critica della spesa pubblica.

A tutt'altra conclusione giunge Monsurrò nel caso della quarta macro-area, ovvero la spesa per la protezione sociale, che include pensioni per vecchiaia e superstiti, malattia e disabilità, famiglia e bambini, e disoccupazione. Se valutiamo l'intera spesa per protezione sociale l'Italia è caratterizzata dalla percentuale su Pil più elevata nel confronto a cinque, dopo la Francia, che tuttavia ha una percentuale sensibilmente più bassa di popolazione anziana (al di sopra dei 64 anni). L'anomalia italiana è che la spesa pensionistica per vecchiaia e superstiti è largamente più elevata degli altri paesi, se si guarda il rapporto rispetto al Pil, ed è confrontabile alla sola Francia. Il confronto con la Germania è particolarmente rilevante: entrambi i paesi hanno una percentuale di anziani intorno al 20 percento, ma l'Italia spende il 13,7 percento (dati del 2011) del Pil in pensioni, contro il 9,5 percento della Germania: più di quattro punti di Pil in più. Tutte le cose trovano una qualche forma di bilanciamento, spesso parecchio perverso: l'Italia spende moltissimo in pensioni e molto poco nelle altre aree della protezione sociale, e soprattutto per bambini e famiglia e per disoccupazione.

La quinta macro-area indagata da Monsurrò riguarda la sempiterna questione dei sussidi alle imprese (oggetto del cosiddetto Piano Giavazzi del 2012) e la sesta le spese per l'ambiente, il territorio e la cultura, sulle quali si mostra come l'Italia spenda poco in generale e male in particolare.

Commento mio finale, non necessariamente rigoroso dal punto di vista econometrico, ma tant'è: riuscite ancora a stupirvi se vi dicono che l'economia e la società italiane sono in stagnazione da vent'anni?