Influenza aviaria: la comunità scientifica e l’industria farmaceutica hanno cospirato per ingannare i consumatori? I rischi sono stati esagerati? Si è investito in rimedi inutili? A distanza di anni, sembra questa l'opinione più comune. Ma è davvero così?

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Il contesto da non dimenticare: la Spagnola, l’incompletezza della conoscenza e l’influenza stagionale

Per tentare di stabilire come sono andate le cose, serve un po’ di contesto. Bisogna partire da un grande drammatico evento, la “Spagnola” del 1918-20. L’influenza spagnola apparteneva agli stessi ceppi che circolano oggi, ma è stata molto più virulenta: causò circa 50 milioni di morti in tutto il mondo (secondo altre stime, si arrivò addirittura a 100 milioni di morti). Viene spesso raccontato l'aneddoto delle tre donne americane che si erano ritrovate la sera per giocare a bridge, e delle quali solo una sopravvisse fino al mattino seguente. Non siamo ai livelli di mortalità della peste nera del 1348-50, ma le cifre sono impressionanti, e ci riferiamo a tempi in cui i nonni di molti di noi erano già nati e in cui già esisteva la medicina moderna. In Italia, le stime vanno dal quarto al mezzo milione di morti (in rapporto alla popolazione di oggi sarebbero tra i 400 mila e gli 800 mila). Per varie ragioni, tra cui la difficoltà di ammettere un fallimento così bruciante della classe medica e l’assuefazione alla morte dopo la Prima Guerra Mondiale, in Italia la memoria è molto meno viva che altrove.

C’è quindi un evento terrificante in un passato non remoto, ma non solo. In primo luogo, quello della Spagnola non è un virus ormai scomparso, ignoto o – come sarebbe bello –eradicato dall’uomo come il vaiolo. Si tratta dello stesso virus – seppure con qualche cruciale differenza - della tanto abituale influenza.

E qui veniamo al secondo punto, quello davvero inquietante. Iniziamo faticosamente a capire – da pochissimi anni, ed in maniera del tutto incompleta – da dove sia venuta e perché la Spagnola fu così devastante. A differenza del colera, per controllare l’influenza non basta avere water e scarichi dell’acqua moderni e funzionanti; l'unica, o quasi, arma a disposizione è quella dei vaccini, che però non sono mai definitivi per questo virus. Ma questa arma richiede almeno sei mesi per essere dispiegata da quando un nuovo ceppo viene identificato. Per apprezzare la pervasività di diffusione dell’influenza, vale la pena ricordare che un terzo della popolazione mondiale (500 milioni di persone) contrasse la Spagnola e si ammalò, con il decesso di circa un ammalato su 10.

Questo è uno dei motivi per cui gli epidemiologi e i virologi scrutano con attenzione l’arrivo di ogni nuova variante influenzale. Sanno che le nostre capacità predittive sono ancora molto scarse, e che l’unica arma vera è il vaccino. L’influenza, anche quella “normale”, è sempre e comunque un killer. Secondo il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), un decimo degli europei contrae l’influenza ogni anno, centinaia di migliaia vengono ricoverati in ospedale, e circa 40.000 muoiono (stima per il periodo, 1977/78 al 2008/09); essenzialmente gli anziani, i bambini più piccoli e le persone con malattie croniche sono più a rischio, ma tutti possono sviluppare complicazioni quali polmonite, miocardite (infiammazione del cuore) ed encefalite (semplificando, infiammazione del cervello). Si potrà dire che siccome è un evento ricorrente, non catastrofico, non ci si dovrebbe allarmare. La stessa risposta si poteva dare ai tanti decessi per tante malattie che non ci sono più. Resta il fatto che morire di persona, quando si potrebbe evitare, è più di una scocciatura.

 

Il “fiasco” del 1976

I fatti recenti legati all’influenza aviaria del 2006 non sono stati una novità assoluta. Uno dei precedenti più controversi riguarda il cosiddetto “fiasco” dell’influenza suina del 1976. Nel gennaio 1976, gli epidemiologi dell’America del presidente Ford, subentrato al dimissionario Nixon da un anno e mezzo, si trovarono di fronte ad una situazione difficile: in una base militare del New Jersey (Fort Dix), si registrò un elevato numero di casi di influenza. Le autorità sanitarie trovarono che la maggioranza dei casi erano da attribuirsi ad un noto e circolante ceppo, ma due, invece, erano sorprendentemente dovuti a un ceppo di influenza suina simile a quella della “Spagnola”. Un giovane militare morì inaspettatamente, impressionando l’opinione pubblica, anche se la maggioranza dei casi furono lievi. Ma gli epidemiologi, pur non trovando evidenze che si potesse trattare di una nuova “Spagnola”, si preoccuparono per le prove di trasmissione da uomo a uomo di questa influenza suina. L’influenza, pur essendo un unico tipo di virus, si differenzia in ceppi con caratteristiche diverse rispetto a ospite (uomo, animale), virulenza e così via. L’influenza suina (come quella aviaria) resta di preoccupazione solo per chi manipola professionalmente animali, finché la trasmissione da uomo a uomo non avviene o è molto limitata.

Gli esperti di sanità pubblica americani valutarono che il rilevamento così anticipato dell’influenza – se vi fosse stata una pausa estiva come nel caso della Spagnola – avrebbe dato l’opportunità di produrre il vaccino ed immunizzare le persone a rischio prima che un potenziale disastro colpisse. Si era convinti che ogni 10-11 anni dovesse ripresentarsi una pandemia, idea che oggi sappiamo sbagliata. Su queste basi si decise per la prevenzione di massa. Il programma di vaccinazione fu piuttosto efficace, con 40 milioni di vaccinati in pochi mesi, ma si verificarono alcuni problemi. In primo luogo, vi fu una scelta di enfatizzare la dimensione politica (il Presidente si fece immunizzare pubblicamente, organizzò incontri con esperti di alto livello e così via); una serie di morti ad un convegno fu attribuito inizialmente all’influenza e si creò l’impressione di una manipolazione mediatica per stimolare le vaccinazioni; le società farmaceutiche chiesero allo Stato una protezione legale da eventuali cause di risarcimento per eventuali effetti avversi delle vaccinazioni (riprendendo in realtà una posizione precedente delle autorità); ci furono delle apparenti (poi smentite) morti per il vaccino.

Soprattutto fu notato e confermato un aumento dei casi della sindrome di Guillain-Barré (che comporta una progressiva paralisi muscolare) tra coloro che avevano ricevuto il vaccino. Il programma di vaccinazione contro l’influenza “suina” fu interrotto a gennaio dell’anno successivo, alcune teste rotolarono e il New York Times accusò i funzionari sanitari di interesse personale e l’Amministrazione di aver usato la possibile epidemia a fini politici per ribaltare l’immagine di un presidente poco efficace e deciso.

Rimase l’espressione “fiasco dell’influenza suina”, che permea tuttora la percezione di quanto accadde. Gli esperti di sanità pubblica tendono invece a sostenere la correttezza dell’idea di avere le dosi di vaccino pronte, ma non quella di iniziare subito ad immunizzare; soprattutto, notano che nel periodo della primavera del 1976 si sarebbe dovuto tenere in conto che il virus non stava mutando in maniera più virulenta e che non si stava diffondendo, e che comunque i sintomi erano lievi. Gli esperti ritengono di aver imparato solo in quegli anni che la teoria dei 10 anni tra una pandemia e l’altra non reggeva, che evidenze di trasmissione uomo-animale se isolate non confermano un problema e che anche un episodio epidemico importante non predice una pandemia. Ma riconoscono anche onestamente che gli eventi dell’inverno 1976 e altri dati emersi all’epoca li avrebbero lasciati nervosi per molti anni, anche se non si fosse fatta la campagna di immunizzazione decisa da Ford.

 

L’influenza aviaria. Il rischio fu valutato correttamente?

Un alto rappresentante della sanità pubblica USA, Leroy Burney, disse nel 1957: "Sono sicuro che qualsiasi cosa avremo fatto, saremo criticati sia per sia per aver fatto troppo che per aver fatto troppo poco ... Se l'epidemia non si verifica, ne saremo felici. Se si verificherà, allora spero che potremo dire ... che abbiamo fatto tutto e preparato ogni cosa per fare il miglior lavoro possibile nei limiti delle conoscenze scientifiche disponibili e delle procedure amministrative". Tenendo a mente queste parole, possiamo cominciare a discutere dell'influenza aviaria. La valutazione del rischio iniziale fu appropriata sulla base di quanto si sapeva allora? Fu comunicata in maniera corretta ai media e poi dai media al pubblico? La gestione del rischio fu ragionevole? La scelta di acquistare grosse quantità di antivirali, oggi così controversa, fu appropriata, sulla base di quanto si sapeva?

Per affrontare il primo punto, possiamo vedere cosa scrisse l’ECDC (Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie) nel 2006. La lettura è istruttiva. Gli esperti europei ricordano il doppio aspetto del rischio: quello legato ai volatili (quindi per la zootecnia), e a chi sta a stretto contatto con gli stessi per motivi professionali, e quello che il virus diventasse un virus pandemico, se non come la Spagnola, almeno con una virulenza preoccupante. Ricordano dati quali il progressivo aumento della patogenicità ai volatili a partire dagli anni ’90 e la comparsa crescente di infezioni in Asia tra chi manipolava polli, con letalità tra gli infetti straordinariamente elevata, ma anche come, nonostante gli estesi contatti tra pollame e esseri umani in Asia (vendita di polli vivi, polli da cortile, ecc.), i casi di infezione rimanessero molto pochi. Tra l’altro, anche senza considerare il rischio pandemico, la protezione del pollame e del personale occupazionalmente esposto raccomanderebbe comunque una strategia di controllo molto attenta (che dovrebbe tenere conto anche dei danni agli allevatori).

Tornando alle riflessioni dell’ECDC, rispetto al 2003, una delle novità notate è il maggior movimento del virus tra specie avicole, compresi i migratori. Preoccupava l’esteso contatto con animali da cortile nei paesi con sistemi veterinari inefficaci (il motivo è il rischio che il virus aviario, ad alta letalità, si mescolasse a quello umano, ad altra trasmissibilità). La trasmissione da uomo a uomo, diceva l’ECDC, resta non provata (a partire dal 2011, questa trasmissione seppur rara è stata osservata). L’ECDC aggiungeva che nessun virus di quel tipo (H5N1) si è mai adattato all’uomo, ma che il virus dell’influenza ha la capacità di “…confondere coloro che tentano di controllarlo” e che questo adattamento non può essere escluso. E che, certamente, con una maggiore diffusione, con maggiori contatti con l’uomo, questo rischio diventa maggiore. Diceva l’ECDC che si tratta di “un gruppo di virus influenzali degli uccelli, mal adattati all'uomo che essi trovano difficile infettare se non a dosi elevate. Sono pericolosi in quanto sono altamente patogeni in quei pochi esseri umani che vengono infettati, ma poi in genere non vengono trasmessi ad altri esseri umani”.

Si ricordava l’arrivo con i migratori del virus nella UE, e il suo sostanziale controllo da parte delle autorità veterinarie. L’ECDC spiegava anche che non era possibile stabilire se H5N1 avrebbe generato una nuova epidemia, o se in generale il rischio di pandemia fosse più elevato in quel momento. Però, aggiungevano, se H5N1 fosse stato davvero in grado di generare una pandemia, cosa che gli esperti non erano in grado di valutare, data la maggiore diffusione negli uccelli, una eventuale mutazione si sarebbe potuta verificare più rapidamente. Se i governi, concludeva il report degli esperti, si stavano preparando per una pandemia, e se sospettavano che questa potesse essere legata ad H5N1, c'erano dunque buoni motivi per accelerare queste misure.

Possiamo dire oggi che c’è qualcosa di illogico o di scientificamente non corretto nella valutazione dell’ECDC? Anche se si avverte la complessità della situazione, non sembra proprio, neanche con il senno di poi. A distanza di otto anni, non sappiamo ancora con certezza se H5N1 abbia questo potenziale. Anzi gli studi più recenti hanno suggerito un ruolo primario nella “Spagnola” non ai suini, ma proprio ai volatili confermando l’importanza di tenere sotto controllo l’influenza aviaria.

 

Abbiamo capito male?

Nel 2006 gli italiani erano preoccupati del rischio pandemia e dell’aumentata probabilità che il potenziale pandemico di H5N1 si sviluppasse? Oppure erano preoccupati per i polli sulle loro tavole e per i volatili nei loro giardini? L’arrivo di volatili ammalati in Europa portò a casi di influenza aviaria prossimi, il rischio di ammalarsi sembrava a portata di mano. L’effetto sull’industria del pollame fu drammatico, specie in Italia e in Grecia. Secondo l’industria parte della responsabilità è da attribuirsi alle autorità europee, come EFSA (European Food Safety Authority), che pure avevano comunicato che “non c’erano evidenze”, in particolare epidemiologiche, “al momento” di trasmissione del virus per via alimentare. Ma in Italia questo linguaggio tecnico, benché corretto, non ebbe un effetto del tutto rassicurante, e soprattutto piacque poco l’invito internazionale ad aderire a pratiche igieniche adeguate: cottura completa di carne di pollo e uova (cottura che inattiva comunque il virus anche nella remota possibilità che fosse presente). Sono consigli che in gran parte del mondo occidentale sono standard per proteggersi da Salmonella e altri patogeni: ma in Italia le autorità a tutt’oggi si rifiutano di farli propri, o lo fanno con grande timidezza. Per questo non risultarono affatto rassicuranti.

Ci furono in Italia gruppi di interesse che spinsero contro le carni avicole, a favore di farmaci, vaccini o banalmente di carne bovina? Difficile stabilirlo. Senza dubbio, la comunicazione del rischio, ad un pubblico che era privo di informazioni affidabili sui più banali rischi alimentari, in Italia fallì: un’indagine Eurobarometer del 2006 rivela che l’Italia era il quart’ultimo paese nella UE per comprensione dei rischi sanitari dell’aviaria (58% contro una media del 66%), il terz’ultimo per conoscenza sulle istituzioni deputate a controllarla (52% contro media 58%), l’ultimo per conoscenza delle misure concrete intraprese (59% contro media 77%). Deve stupire che gli italiani invece, dopo i greci, risultano quelli che hanno dichiarato più spesso di aver ridotto il consumo di pollo (38% contro media UE del 18%)? Se le istituzioni europee e mondiali hanno parlato allo stesso modo a tutti gli europei, c’è evidentemente stato qualcosa di specificamente italiano.

Pare quantomeno probabile che ci sia stata una scarsa capacità delle autorità italiane di comunicare correttamente ed efficacemente il rischio, in particolare quello legato al consumo di pollo. In mancanza di una seria riflessione, pur in presenza di alcuni studi accademici, si è data, a cose fatte, la colpa ai media, fondamentalmente per aver riportato quanto OMS, EFSA ed ECDC dicevano senza le dovute spiegazioni, e alle autorità internazionali per aver sopravvalutato il rischio, che poi non si è materializzato. In Italia abbiamo evidentemente anche il problema di scarsa fiducia nelle autorità nazionali, perché la trasparenza non è mai stato un criterio interiorizzato dalla pubblica amministrazione.

 

Abbiamo sbagliato con gli antivirali?

Se vi fu un parziale fallimento della comunicazione del rischio in Italia – e va riconosciuto che sono pochi anni che anche a livello europeo si sta facendo meglio – la risposta pratica fu appropriata, soprattutto sotto il punto di vista più controverso, quello degli antivirali? Ci sono pochi dubbi che prepararsi ad una nuova pandemia sia prudente. Non sappiamo perché la più tremenda sia avvenuta, né che cosa esattamente abbia caratterizzato le successive versioni più aggressive. Sappiamo quindi che potrebbe tornare, e che probabilmente non saremo in grado di dispiegare in tempo un vaccino. 

Gli antivirali non hanno la pretesa di bloccare l’infezione, ma di ridurne la trasmissione o diminuirne la durata. Se una persona resta ammalata per meno tempo, ha meno possibilità di contagiare altre persone. Di conseguenza, nel complesso di una popolazione, la pandemia si diffonde più lentamente, e c’è più tempo per produrre un vaccino. Anche con qualche resistenza al farmaco, l’uso degli antivirali dovrebbe essere complessivamente benefico. Naturalmente gli antivirali costano, e finché una pandemia non si scatena di nuovo (si spera mai), queste risorse saranno investite senza essere messe in uso – come nel caso di un’assicurazione che si spera di non usare mai. Nel caso del Regno Unito, uno studio del 2009 riportava per scenari a bassa mortalità un costo dello 0,5%-1% del PIL, e del 3,3%-4,3% per uno scenario non estremo, ma ad alta mortalità. Secondo l’ISTAT, il PIL italiano nel 2012 era di 1403 miliardi di euro, che suggerisce che il caso peggiore costerebbe – da un punto di vista meramente economico – circa 7 miliardi di euro.

Uno studio molto recente, una revisione sistematica poderosa sull’efficacia degli antivirali, ha sollevato dubbi non sulla loro teorica utilità, ma sulla certezza che questi – in pratica - funzionino. Considerando 46 studi, in parte prima inaccessibili, il gruppo di studiosi ha concluso – come aveva fatto la FDA anni prima - che hanno un effetto nella prevenzione e nel ridurre la durata dei sintomi, forse sulla prevenzione in generale, ma non nella prevenzione delle complicazioni o dei ricoveri; gli autori dubitano anche del meccanismo d’azione, e pongono l’attenzione sugli effetti avversi (sarebbe meglio utilizzare il paracetamolo per trattare i sintomi). Per il movimento a favore del libero accesso ai dati sui farmaci è stato un momento importante, con polemiche nel Regno Unito e anche in Italia.

È stata dunque sbagliata la decisione di investire in antivirali? Purtroppo non è affatto chiaro. I CDC americani continuano a raccomandare l’uso di questi antivirali anche per l’influenza stagionale nei casi più gravi o a rischio di complicazioni. I CDC notano che lo studio, visti i dati clinici disponibili, si concentrava sui pazienti con infezioni lievi che potevano essere influenza, ma non vi erano abbastanza pazienti gravi, o a rischio di complicazioni, che di solito sono esclusi dagli studi. I CDC menzionano anche altri tipi di studi (osservazionali), di minore qualità rispetto a quelli analizzati nella revisione sistematica ma che, per le popolazioni a rischio non incluse negli studi clinici, possono essere informativi.

Non si può certo concludere quindi che le autorità sanitarie abbiano sbagliato, o che avrebbero deciso diversamente se tutti i dati clinici fossero stati accessibili già dal 2006. Sicuramente si potevano comprare gli antivirali prima, o forse dopo, dato che il rischio pandemico non era chiaramente aumentato, ma questa azione andava fatta comunque. Ma rispondere fermamente che era giusto ignorare l’aumentata possibilità che l’H5N1 diventasse pandemico appare del tutto fuori luogo. Forse un domani si scoprirà perché non è successo, o forse non succederà mai, ma allora sicuramente non lo si sapeva.

Nel complesso, quindi, non sembra che la valutazione originale del rischio fosse non corretta, neanche con il senno di poi, che la comunicazione internazionale fosse fuori luogo, che le azioni pubbliche fossero sproporzionate, o che l’acquisto di antivirali fosse privo di senso, anche alla luce di quanto sappiamo oggi. Sicuramente anche a livello internazionale si poteva comunicare meglio, e in Italia, in un contesto di pubblico poco informato ed educato ai rischi sanitari ed alimentari, si è fatto peggio che altrove (e non si è riparato nel tempo). Si tratta di problemi complessi, e reali. Purtroppo, ci rendiamo conto di quanto saggiamente abbiamo assicurato la casa contro un incendio solo quando la nostra casa, o quella di qualcuno che conosciamo,  finisce in fumo. Altrimenti vediamo solo il costo. Dobbiamo però ricordarci che una società si deve fondare su dati oggettivi, o almeno sui migliori dati disponibili e su valutazioni di esperti.

 

Per saperne di più:

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Influenza stagionale (in generale) ECDC, Seasonal influenza. Disponibile online: http://www.ecdc.europa.eu/en/healthtopics/seasonal_influenza/pages/index.aspx

Influenza stagionale (mortalità): Nicoll A, Ciancio BC, Lopez Chavarrias V, Mølbak K, Pebody R, Pedzinski B, Penttinen P, van der Sande M, Snacken R, Van Kerkhove MD. Influenza-related deaths - available methods for estimating numbers and detecting patterns for seasonal and pandemic influenza in Europe . Euro Surveill. 2012;17(18):pii=20162. Disponibile online: http://www.eurosurveillance.org/ViewArticle.aspx?ArticleId=20162

Influenza suina del 1976 e gestione del rischio negli Stati Uniti: Nate Silver. Il segnale e il rumore. Arte e scienza della previsione. Cap. 7 (recensione: http://www.internazionale.it/incipit/incipit/2013/10/16/il-segnale-e-il-rumore/)

Dowdle WR. Influenza pandemic periodicity, virus recycling, and the art of risk assessment. Emerg Infect Dis [serial on the Internet]. 2006 Jan. Disponibile qui: http://dx.doi.org/10.3201/eid1201.051013

Sencer DJ, Millar JD. Reflections on the 1976 swine flu vaccination program. Emerg Infect Dis [serial on the Internet]. 2006 Jan. Disponibile qui: http://dx.doi.org/10.3201/eid1201.051007

Valutazione del rischio dell'aviaria: ECDC. Risk assessment: The Public Health Risk from Highly Pathogenic Avian Influenza Viruses Emerging in Europe with Specific Reference to o type A/H5N1. 2006 Jun. Disponibile al link: http://www.ecdc.europa.eu/en/publications/_layouts/forms/Publication_DispForm.aspx?List=4f55ad51-4aed-4d32-b960-af70113dbb90&ID=99

Reazione dell'opinione pubblica all'aviaria: Eurobarometer Special. Avian flu. Giugno 2006. Disponibile qui: http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_257_en.pdf

Impatto economico pandemia: Smith RD, Keogh-Brown MR, Barnett T, Tait J. The economy-wide impact of pandemic influenza on the UK: a computable general equilibrium modelling experiment. BMJ. 2009 Nov 19. Disponibile qui: http://www.bmj.com/content/339/bmj.b4571

Efficacia di oseltamivir (tamiflu) e zanamivir. La revisione sistematica Cochrane, critiche su efficacia: Jefferson T, Jones MA, Doshi P, Del Mar CB, Hama R, Thompson MJ, Spencer EA, Onakpoya I, Mahtani KR, Nunan D, Howick J, Heneghan CJ. Neuraminidase inhibitors for preventing and treating influenza in healthy adults and children. Cochrane Database of Systematic Reviews 2014, Issue 4. Art. No.: CD008965. DOI: 10.1002/14651858.CD008965.pub4. Disponibile qui: http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/14651858.CD008965.pub4/abstract

A sostegno dell’uso e in risposta alla revisione sistematica Cochrane: US CDC. CDC Recommendations for Influenza Antiviral Medications Remain Unchanged. 14 Aprile 2014. Disponibile qui: http://www.cdc.gov/media/haveyouheard/stories/Influenza_antiviral2.html