Come la contrapposizione tra la Leopolda e la piazza della Camusso ha simbolicamente evidenziato, il Partito Democratico, sotto la guida di Matteo Renzi, ha finalmente consumato alcune importanti rotture - non solo programmatiche ma anche e forse soprattutto antropologiche – con la sinistra tradizionale di questo paese.

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La storia della sinistra italiana, dalla Bolognina in poi, ha vissuto una sequenza di significative fasi evolutive, dalla stagione dell’Ulivo di Prodi – che pure ha visto alcune privatizzazioni e, con Treu, una prima riforma del mercato del lavoro – fino alla nascita del Partito Democratico frutto dell’intuizione riformista di Walter Veltroni. Tuttavia non si può negare che sia con l’ex sindaco di Firenze che la sinistra italiana ha compiuto l’ultimo passaggio di emancipazione dai retaggi postcomunisti, per presentarsi come partito paese in grado di coniugare istanze modernamente progressiste e posizioni third way.

In tutta questa gloria c’è però un problema, ed è bello grosso: ad una tale prospettiva politica la classe dirigente della sinistra italiana ci arriva inesorabilmente ritardo rispetto alla Storia. Se avessimo avuto questa sinistra due o tre decenni fa, il dibattito politico italiano si sarebbe declinato in maniera diversa e sarebbe stato possibile cogliere nel modo migliore la straordinaria finestra di opportunità offerta dalla caduta del Muro e dalla globalizzazione economica.

Secondo molti, Renzi è il Blair italiano e per tanti aspetti è vero, perché come Blair è stato in grado di superare molte delle incrostazioni ideologiche della sua parte politica; ma la vera questione è che è un Blair che arriva con vent’anni di ritardo e senza un boom thatcheriano alle sue spalle. Certamente Tony Blair è stato un premier di successo, al punto da riuscire a vincere tre elezioni, ma si è trovato ad operare in una condizione interna favorevole, grazie alla vitalità economica prodotta dalle riforme della Lady di Ferro, ed in una congiuntura internazionale di generale ottimismo, apertura ed espansione. Insomma, la Gran Bretagna ereditata dai laburisti nel 1997 era già su ottimi binari ed in quel contesto a Blair non servivano rivoluzioni; per restare sulla cresta dell’onda gli bastava una politica incentrata sullo svecchiamento a livello di immagine, su alcune riforme di efficientamento e sull’abbattimento di qualche totem lessicale.

Chi crede, però, che una simile ricetta sia sufficiente nello scenario di conclamato declino in cui versa l’Italia, appare fuori strada. Il vero problema del PD è che scopre oggi i mille modi migliori in cui si sarebbe potuto gestire il welfare e comincia oggi a mettere in discussione il modello italiano di “stato del benessere” – un modello che non é stato centrato sull’erogazione di servizi che migliorassero la qualità della vita del cittadino, bensì sulla distribuzione di pensioni baby e sul mantenimento artificiale di posti di lavoro finalizzati a comprare il consenso e la pace sociale.

Questo tipo di sistema, così disfunzionale, avremmo potuto superarlo da anni ed anni, per riorientare la spesa pubblica nel senso di un welfare-to-work, se solo la sinistra in tutto questo tempo non avesse difeso come una linea del Piave ogni possibile rendita di posizione. Oggi, purtroppo, è tardi per sognare uno stato sociale “efficiente” quando ormai abbiamo “consumato”  le realtà produttive che, attraverso le tasse, potevano sostenerlo; in questo senso è sbagliato illudere gli italiani che sia possibile importare altri modelli welfaristi centro-europei o nord-europei, senza che si comprenda come essi si possano sostenere solo in paesi che abbiamo determinati fondamentali economici che l’Italia non ha.

Lo stesso “modello Ichino” di riforma del mercato del lavoro prefigurato dalle aree più avanzate della maggioranza renziana appare fuori tempo massimo, perché troppo costoso rispetto alle risorse che possono essere rese disponibili oggi. Non ha senso pensare di potersi permettere una “flexsecurity” danese, quando vaste aree d’Italia hanno un PIL a livelli greci. Il rischio del progressismo renziano è che alimenti aspettative in termini di politiche sociali che non possono essere soddisfatte, riduca la percezione della reali condizioni in cui si trova il paese e di conseguenza anche il senso di urgenza necessario per sostenere vere riforme sostanziali.

Insomma se il messaggio che passa è che in fondo le cose non stanno andando troppo male e che c’è spazio per tante cose da “sinistra moderna”, dagli asili nido agli Erasmus, dai contratti  a “tutele crescenti” ai bonus-bebè, allora a passare all’incasso sarà anche ed inevitabilmente la “sinistra all’antica”. Perché se i soldi “ci sono”, è chiaro che i primi (ed i più bravi) a rivendicarli saranno i gruppi di interesse organizzati che ne hanno sempre beneficiato.

In realtà, per dirla con le parole di Margaret Thatcher, in Italia “i soldi degli altri” sono finiti e più che di fronte agli esempi di riorientamento/efficientamento del modello di welfare di paesi “ricchi”, bisognerebbe provare a guardare a scenari di rilancio di paesi falliti, in particolare alle riforme economiche radicali che hanno risollevato i paesi dell’Europa dell’Est dopo l’89.

Qui non è tempo di politiche sociali che diano più e meglio: è tempo di riazzerare tutto e di provare a riattivare dinamiche economiche che producano ricchezza. Non è tempo di un Tony Blair, di un Bill Clinton o di un Wim Kok; ci vorrebbe forse invece un Igor Gaidar o un Tadeuz Mazowiecki.