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Pacifismo, realismo e pluralismo sono da settimane le parole feticcio e le maschere dell’intendenza putinista, che segue disciplinatamente l’agenda mediatica del Cremlino, incorporandone e diffondendone le “verità alternative”.

Un’intendenza putinista per contratto, per amore o per rimbalzo. Per contratto, non c’è da spiegare in che termini: di quattrini o, come si dice, di altre utilità. Per amore, nel senso della passione per un’idea della politica e dello Stato forte, che riabiliti i vantaggi di una disciplinata e servile sudditanza contro i pericoli di una libera cittadinanza, troppo disordinata e indifesa di fronte ai rovesci della storia. O per rimbalzo, nel senso dell’amicizia per il nemico del nemico, per il guastatore – per quanto brutto, sporco e cattivo – dell’ordine politico americano, del tran tran economico europeista e della dittatura liberal-capitalista.

Non c’è un solo putinano, ovviamente, che si presenti come tale e che dichiari il proprio fiancheggiamento delle tesi del Cremlino sull’accerchiamento Nato, sui nazisti di Azov, sul genocidio in Donbass, sulla corruzione e opacità dell’oligarca Zelensky e sul bellicismo anglo-americano e giuri la propria obbedienza al vangelo della guerra santa moscovita. E concediamolo, dunque: sono tutti, appunto, putiniani non soggettivi, ma oggettivi; non per ideale coincidenza, ma per materiale corrispondenza di interessi, di sentimenti e di inimicizie.

Sono putiniani di un putinismo che non è in purezza, ma è opportunamente tagliato per adattarsi a palati abituati alla retorica democratica. Ma di un putinismo abbastanza spinto e riconoscibile da apparire congruente con l’originale e servibile ai suoi bisogni. E qui entrano in gioco le parole della guerra: le parole per dirla, le parole per farla.

Una delle leggi fondamentali e neglette della politica è che dove si può dire impunemente qualunque cosa, può succedere davvero qualunque cosa. E impunemente – sia detto per placare i libertari per Putin – non significa “senza fare la fine che Putin fa fare a quelli che dicono le cose che non gli piacciono”. Significa senza alcun tipo di sanzione sociale e reputazionale, senza alcuna conseguenza, che non sia di incrementata e remunerativa visibilità.

In Italia, per esempio, si può dire che la pace è “proibita” dagli ucraini e dalla retorica bellicista di Kiev e dei suoi alleati e a dirlo con più forza possono essere proprio i custodi incaricati o autoproclamati dell’eterno partigianesimo italiano e dell’Ora e sempre Resistenza. Oppure ci si può scandalizzare che Putin abbia fatto ciò che da anni annunciava che avrebbe fatto, anche se a scandalizzarsene sono gli stessi che, fino al giorno prima dell’invasione, mettendo la mano sul fuoco a proposito delle intenzioni dell’amico o alleabile despota del Cremlino, escludevano che tutto questo sarebbe mai potuto accadere, irridevano l’al lupo al lupo dei servizi di intelligence Usa e Nato e derubricavano ad azione puramente dimostrativa l’ammassamento di truppe e mezzi russi ai confini ucraini.

Se si può dire qualunque cosa, qualunque parola è destinata a rovesciarsi nel suo contrario e ad annullarsi nel suo significato. Come nella distopia di 1984 la guerra diventa pace, la libertà schiavitù e l’ignoranza forza. La surrogazione ideologica della verità da parte della menzogna non rende vere le affermazioni false (“Hitler era ebreo”), ma mette fuori gioco, quando non fuori legge, le domande di verità, cioè le questioni di verità che non siano immediatamente questioni di potere. Le verità, a quel punto, sono decretate. Diventano prerogative sovrane. Non hanno nessuna realtà esterna e autonoma, ma solo una funzione interna e servente alla logica del comando e dell’obbedienza. Quindi le parole proibite non possono essere pronunciate e quelle ufficiali non possono essere discusse. Non si può dire “guerra”, si deve dire “operazione militare speciale”, ma non si può chiedere che cosa sia, perché la domanda stessa rimanda alla impronunciabilità della parola “guerra”.

La Russia di Putin fa da vent’anni delle parole della politica quel che fa da più di due mesi delle città ucraine, un deserto di rovine. E tenta di esportare questo deserto anche in Italia, in Europa e in Occidente, dove non può usare armi di distruzione e repressione, ma di inquinamento e perversione della funzione e dei contenuti della libera informazione, trasformando questo strumento fondamentale di integrazione politica e culturale della società aperta in un’arma di disintegrazione civile e cognitiva di massa.

È un’opera che la Russia non ha certo iniziato oggi, che ha scientificamente ingegnerizzato, che ha intrapreso con larghezza di mezzi e di risorse e che ha già dato i suoi frutti in Italia. E tra i frutti c’è anche questa vasta disponibilità di critica e di pubblico alle contestualizzazioni oscene della guerra (“però la Nato…; però l’Ucraina…”) e a ipotesi di soluzione e di exit strategy dal conflitto che comportino, nei fatti, che la Russia si prenda con la pace quel che non riesce a conquistare con la guerra e che l’Ucraina dimezzata si accontenti di vivere in una pace e libertà condizionate dai voleri e disvoleri di Mosca. Ma anche per fare questa operazione bisogna corrompere le parole e commutarne i significati. In modo non poliziesco e bestiale, ma farisaico e curiale.

Partendo ovviamente dalla parola pace, non nel senso di una condizione di diritto e giustizia, ma della resa e della capitolazione, cioè della continuazione della guerra con altri mezzi. Neppure meno cruenti, ma formalmente meno bellici. La pace di Grozny, magari, per stare nei paraggi. La pace come contraccambio della schiavitù, come cimitero della libertà. Putin “baluardo della pace”, come si diceva ottant’anni fa di Stalin. Il pacifismo come suggello del dominio.

E poi la parola realtà, prostituita alla rappresentazione realista: il realismo non come dottrina, ma come ideologia, non come lettura razionale dei fatti, ma come devozione feticistica allo stato di fatto o come volontà di potenza, che si fa teoria della necessità storica e politica, in modo intimidatorio e contraffattorio. Non era realistico che gli ucraini resistessero e invece resistono. Non potevano resistere perché niente di quel che non poteva accadere (la reazione della Nato, la solidarietà europea) sarebbe accaduto e invece è accaduto.

Ora non è realistico che pretendano di difendere la propria integrità territoriale, che peraltro non è una fisima nazionalistica, ma una condizione inderogabile di libertà e di sicurezza politica. E non è realistico, perché non è tollerabile mettere in conto una sconfitta della Russia, esattamente come non era realistico scommettere sulla fine per collasso interno dell’Unione Sovietica. Eppure, è proprio quello che è avvenuto. Ciò che non è realistico, per i nostri “realisti”, è quel che non sanno capire o non vogliono accettare: che la politica, anche a livello di stati, è una attività umana e non è ragguagliabile a un fenomeno naturale. Che quelle cose che essi reputano così sovrastrutturali e risibili – la volontà, la libertà, le idee – sono la realtà politica e storica incarnata: sono, semplicemente, il mondo.

Infine, per tornare alle parole stuprate, ecco il pluralismo, ridotto a foglia di fico della vergogna del giornalismo asservito alla propaganda o allo spettacolo, al fiancheggiamento o all’infotainment. Con l’alibi del pluralismo, in trasmissioni che non si sa se ispirate al Grande Fratello di Orwell o quello di Endemol si lascia ampio spazio ai propagandisti ufficiali e ufficiosi del Cremlino, si fanno comiziare i ministri e i portavoce di Putin e poi si monta attorno a queste testimonianze di prima mano dalla cupola moscovita il teatro dello scandalo e della riprovazione, lasciando in genere la parola finale ai terzisti scientifici, che spiegano che, “fermo restando che gli ucraini sono gli aggrediti e i russi gli aggressori”, non si può parteggiare per gli uni o per gli altri, ma bisogna tenere conto della complessità degli eventi…

Insomma, il pluralismo all’italiana è il comodo porto di sbarco degli agenti del caos, dei professionisti della guerra ibrida, degli avvelenatori dei pozzi dell’informazione, oltre che dei senza testa e senza coscienza, che sono da sempre prede predilette del reclutamento prima sovietico e ora russo. E i gerenti degli spazi così occupati dalla propaganda del nemico, cioè gli anchorman e le anchorwoman dei famosi talk show, fanno pure i sostenuti e danno lezioni sulla libertà dell’informazione in tempi di guerra.

Alla fine il bilancio è questo: pacifismo senza pace, realismo senza realtà, pluralismo senza informazione. E Putin è contento.