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Orsini, come Conte, Salvini, Travaglio, Santoro, una buona metà del Gruppo Mediaset, La 7/Kabul, e la “fascia berlingueriana”, con qualche varietà di accenti ma, nella sostanza, all’unisono, affermano di ispirarsi ad un criterio grosso modo “realista”, nel presentare le ragioni di Putin rispetto a quelle ucraine. Aggressori sì, i russi, ma provocati dalla iattanza americana, incurante delle legittime aspirazioni di Mosca al suo “estero vicino”.

Ne consegue che la difesa ucraina non è una difesa, ma, a ben vedere, la prosecuzione di un’offesa, quale sarebbe senz’altro la citata “spinta verso est”, di pretto e vieto stampo imperialistico occidentale. Si tratta, peraltro, di opinioni, diciamo, di seconda mano, in quanto ricalcano gli enunciati di alcuni politologi statunitensi, il più considerato dei quali è John J. Mearsheimer, e a cui si può accostare Jeffrey Sachs, che ieri in una intervista al Corriere ha riproposto il “canone dell’arroganza americana”.

Kissinger, pur’esso citato, per quanto perplesso sul cd “allargamento della NATO”, non perde mai di vista il ruolo complesso svolto dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, e mai si spingerebbe a sottoscrivere le corrività di Sachs sul Vietnam, che determinò invece una drammatica e tragica “rottura del consenso nazionale”, dopo l’iniziale, unanime, adesione al progetto anticomunista, da cui sarebbe sorto un travaglio identitario le cui propaggini sono giunte a toccare il tempo presente; non, dunque, un ineffabile “sbaglio”, come detto nella frettolosità un po’ quaresimale di Sachs, inoltre, pure consulente consentaneo del Vaticano. Lo stesso Kissinger su Iraq e Afghanistan, cerca spiegazioni, più di quanto non offra condanne pret-à-porter: di fronte all’insorgenza di una dimensione terroristica internazionale, capace di colpire vastamente e ripetutamente gli Stati Uniti tentarono di opporre “l’universalità dei propri valori”.

Quanto a Mearsheimer, i suoi due capisaldi, esposti distintamente da ultimo anche ne “La Grande Illusione” – cioè: a) l’ordine internazionale è retto dall’anarchia; b) gli Stati decidono sulla base della paura per la propria mera sopravvivenza – non riescono a spiegare né l’aggressione della Crimea nel 2014 e del Donbass già nello stesso anno, né quella dell’Ucraina in atto: infatti, in nessuno dei due casi, la Russia aveva ragione di credere che sarebbe stata aggredita dalla NATO, come lo stesso Mearsheimer è costretto ad ammettere: semmai, l’azione russa è dipesa da frustrazione per la progressiva perdita di ascendente sull’Ucraina, di nuovo, anche secondo Mearsheimer; che, cosí, non riesce però a cavarsi da un’aporia insanabile: o l’insieme anarchia/paura/sopravvivenza, essenza del “realismo”, ha determinato la Russia alla guerra: ma il presupposto, l’incombente minaccia della NATO, è negato dallo stesso studioso; o la Russia, come in effetti è accaduto, ha agito prescindendo dalla coppia paura/sopravvivenza, e allora il “realismo”, quale chiave analitica, qui svanisce.

Accantonata, pertanto, l’ispirazione del “realismo espiativo nordamericano”, nulla qui vogliamo dire di una sintonia, per così dire, negozialmente russofila dei nostrani “realisti”. Anzi, ammessa senza meno una “spontanea” concordanza contro il Grande Satana da parte di costoro (ricordiamo che i giochini anti-Nato dei nostri “oppositori nella bambagia”, sono attentamente osservati da un vasto mondo “religiosamente critico”, di circa un miliardo e mezzo di spettatori, più altrettanti in Cina, amici/nemici), essa sarebbe persino più rilevante di un ipotetico rapporto diretto con Mosca: in quanto verrebbe a descrivere un vuoto culturale democratico già “maturo”.

Resta comunque che, quando i russi hanno cercato teste di ponte per la loro guerra di propaganda, lo hanno sempre fatto lavorando sul ventre molle di un’opinione pubblica. Le Pen, Orban (la tipologia della quinta colonna rimane anche nei suoi contingenti ondeggiamenti), AFD, forse Linke, l’intero capitolo Brexit, sono stati ambiguamente a contatto con l’Universo Kgb/Fsb, proprio per la loro sperimentata attitudine a “parlare chiaro” (ne ha scritto ampiamente Catherine Belton, del FT, nel suo prodigioso “Gli uomini di Putin”): lungo la linea “il più pulito ha la rogna”, “tutti in galera”, “via i neri” “meglio la DDR” ecc., che anche in Italia, com’è noto, può vantare un trentennale servizio e natura palindroma.

Ma lasciamo, per oggi, da parte il dettaglio di simili interpretazioni, e gli errori di fatto che veicolano. Basti solo rilevare che in un caso dai cosiddetti “realisti” si è disposti a risalire fino al Vietnam, (ma Santoro ha richiamato anche i bombardamenti degli Alleati sulla Germania del III Reich), quale archetipo del bellicismo inconcludente degli USA: con ciò, peraltro, dimostrando una “ermeneutica della semplicità” liminare all’infantilismo geopolitico. Nel caso di Putin e nelle sequenze della “provocazione” da parte di questi “realisti” si passa invece in cavalleria su Cecenia, Georgia, Crimea, e Donbass 2014: sicché sembra che Putin abbia almeno un sosia, mani dietro la schiena, fisso a prendere ceffoni dal bullismo americano, mentre il primo rinverdiva i fasti staliniani e, a ritroso, zaristi: e con la stessa micidiale violenza dei suoi mentori storici. Ma ignari l’uno dell’altro.

Lasciamo stare, simili fantasie, dicevo, e soffermiamoci invece brevemente sulla “dottrina”, su questo criterio: il “realismo”. La Realpolitik è una dimensione naturale dell’azione politica, figurarsi. Ma il punto è che ha sempre avuto il tratto essenziale di essere tacita, di risaltare dalle condotte o dai risultati: o come accomodamento, o come necessità in fondo tragica, o anche come calcolo; ma sempre accompagnandosi ad una rivendicata dignità della meta pubblicamente perseguita: e non per ipocrisia, ma perché nessuno statista o consigliere del principe che non fossero dei ciarlatani, ha mai pensato di poter abdicare alla responsabilità verso la comunità di riferimento, democratica o meno che fosse.

Responsabilità che si sostanzia di alcunché di ideale: mobilitare significa accomunare, e accomunare, riconoscersi intorno a memorie, volontà, speranze condivise; non è accozzarsi intorno alla pastura. Invece, spostare “la ragione degli interessi” sul piano della dimensione esplicita della politica, segna solo un abbrutimento dei ruoli e delle responsabilità, proprio di un agire barbarico.

Bismark non disgiunse mai le sue scelte e i suoi accorgimenti più spregiudicati (telegramma compreso) dalla rivendicata giustezza ideale della unificazione tedesca: e si legittimava con la Storia e con uno slancio ideale. Ed era Bismark.
E, dopo Caporetto, nulla era più vicino ad un interesse immediato che una resa. Ma fummo riscossi dalla parola, dalla forza dei cuori a prevalere sullo stomaco. E non parliamo di quelli che, assai poco “realisticamente”, se ne andarono in montagna contro un esercito ancora potentissimo, e col solo ausilio di boschi e dirupi, fra i quali raccogliere armi paracadutate qua e là. Si agì “contro gli interessi”, e a favore della giustizia e della politica “vera”, cioè mista di “cose e di parole”, ma non inafferrabilmente “reale”.

Il rischio nucleare in sé considerato è terribile: ma è un rischio, cioè un’ipotesi che, quando è messa lì senza alcuna precisazione di contesto e di credibilità strategica, vale come il possibile urto di un meteorite.
Ed è singolare che, proprio dove più un giudizio “sugli interessi” sarebbe appropriato, giacché anche Putin conosce l’inevitabile attitudine suicidaria delle armi atomiche (anche di quelle cosiddette tattiche: o perché le possiede pure la NATO, o, peggio, perché un’escalation ancor più direttamente produrrebbe l’effetto universalmente distruttivo), i “realisti” si abbandonano all’irrazionale, al fantasmatico, al distopico.

Questo cosiddetto realismo, perciò, è solo estenuazione morale; è la protesta del parassita atteggiato a signorotto, di cui però è stato scoperto il gioco: vivere, per tre generazioni di fila, nella pace del proprio giardino europeo, mentre altri si sporcavano le mani nei lavori necessari a mantenerlo (recinzione, guardianía e concime compresi); e che batte i pugni perché, miseramente disperato, non vuole pagare, né gli arretrati e nemmeno il debito corrente. È un realismo senza verità e, perciò, senza realtà.