Valutare entità e uso delle risorse disponibili, riequilibrare spesa e opportunità tra le generazioni, sobbarcarsi il peso del debito accumulato: snodi decisivi per tentare di sgrossare quel blocco di marmo che chiamiamo modernità e che difficilmente sapremo modellare usando attrezzi immaginati in altre e per altre epoche.

Cuperlo campo stivali

Si dice sia più facile guardare la Storia da lontano. Che poi è quanto capita studiandola sui manuali. Più complicato è orientarsi quando accade di camminarvi a fianco o persino all’interno. Di trovarsi immersi in vicende destinate, per portata e impatto, a sconvolgere il paesaggio attorno. Quando la scossa si veste di una versione pubblica, di massa, quando coincide con un evento traumatico, quella percezione – di camminare tra le pagine di un futuro manuale scolastico – si impadronisce di noi.

Ricordo, da giovane, le emozioni di transitare dal Checkpoint Charlie una settimana prima che il Muro crollasse portandosi appresso parecchie macerie del ’900. Meno scontato è rendersi conto dei passaggi d’epoca quando si insinuano di traverso nelle nostre vite, passando da un ingresso sul retro. O comunque senza una forza scatenante – evento, simbolo, processo – che si possa rubricare alla voce “svolta”. Eppure questi anni che ci è dato di traversare stanno producendo esattamente quel genere di frattura. Un tempo avremmo detto, tra un mondo che non c’è più e uno che stenta a nascere, ma pare in ogni caso destinato a imporsi. E in tempi rapidi.

Quando accade – e non tutte le generazioni sono toccate da un destino simile – compito della politica, e non solo, dovrebbe essere quella di dotarsi dell’attrezzatura necessaria per affrontare il cambio di scena. Pratica che richiede attitudine, pensiero, qualche radicalità destinata magari a partorire tratti di eresia. Ciò che non paga è il mero riciclare idee già consumate. Ripercorrere sentieri battuti e limitarsi a governare il nuovo, impetuoso o meno che sia, usando ricette e programmi immaginati in altre epoche o momenti.

La premessa giustifica l’idea che uno di questi passaggi, di scena e di tempo, sia oggi nel suo pieno svolgersi. È un transito per nulla indolore. Investe la dimensione economica, il come cosa perché produrre, le forme del lavoro e la sua retribuzione, i profili delle democrazie almeno nel campo di ciò che per decenni abbiamo battezzato Occidente. Ma è anche qualcosa che impatta la sfera morale, convinzioni etiche e relazioni sociali, le discriminanti tra il giusto e ciò che non lo è o non appare più tale se la riflessione si allarga ai caratteri propri e irriducibili dell’inclusione e della cittadinanza. Dunque la scena abbraccia più o meno tutto: geopolitica, assetti di potere, contenuti e soggetti della rappresentanza. E senso e destino della sinistra – intesa come la somma di princìpi e politiche pubbliche che le culture eredi di quella tradizione plurale sono in grado di elaborare ricollocandoli nel nuovo capitolo della Storia.

Tra i limiti di fondo della stagione alle nostre spalle, credo vi sia stata soprattutto la difficoltà del campo progressista a misurarsi con la portata enorme di questi processi. Il che ha indotto una sorta di ripiegamento programmista: l’idea che dinanzi a tante e tali difficoltà la cosa più logica fosse addizionare una sorta di decalogo di buoni provvedimenti (e talvolta lo sono certamente stati), ma al di là e al di fuori di una lettura d’insieme, sistemica, di dove stava piegando la realtà. L’effetto è stato una sinistra di governo destinata a smarrire nel tempo una serie di legami sociali che non hanno più trovato l’aggancio per sentirsi interpretati nei loro interessi e bisogni.

Certo, su questo venir meno di relazioni solide nel vecchio contesto ha pesato la frantumazione di quei soggetti – vogliamo chiamarle “classi”? – che a lungo avevano favorito un rapporto strutturato dentro culture e appartenenze politiche facilmente riconoscibili. Per dire, in anni recenti tra i fenomeni più significativi di questo “divorzio” vi è stata la declinazione individuale del conflitto. Operai appesi in cima alle gru a manifestare la loro disperazione per un lavoro che spariva. Ricercatori arrampicati sui tetti dei dipartimenti a rivendicare fondi mancanti o denunciare pratiche abusive nella selezione dei docenti. Sino a manifestazioni estreme del disagio che hanno fatto del corpo lo strumento di una denuncia e, al fondo, di un testamento dei fallimenti cumulati. Si legga “Concetta”, l’ultimo lavoro di Gad Lerner uscito da Feltrinelli, per averne una rappresentazione al contempo realista e tragica.

Altrettanto evidente è che la Grande Crisi esplosa nel 2008, e protrattasi per un decennio, ha finito coll’acuire ed esasperare il quadro. Parliamo di Grande Crisi perché tale è stata. Nelle sue radici, manifestazioni, ricadute. Ha mutato il panorama economico, sociale, culturale delle società del benessere, colpendo sotto la cintola la classe media e determinando un’onda di disagio mescolato a risentimento che, forse troppo sbrigativamente, abbiamo liquidato da questa nostra parte come regressione populista. La realtà, faticosa da assumere ma necessaria, è che senza scorgere l’impatto complessivo del decennio anche sulla tenuta etica del nostro modello di convivenza e civiltà, noi fatichiamo a capire come sia stato possibile che un “idiota”, o almeno un pericoloso “incompetente”, sedesse nello Studio Ovale della Casa Bianca. Fatichiamo terribilmente a comprendere come sia potuto accadere che nel cuore dell’Europa abbia ripreso quota e consenso un nazionalismo furente e aggressivo che speravamo – questo sì – di avere seppellito nelle pagine ingiallite dei manuali scolastici del vecchio secolo.

Se questo è il fondale, compito della politica e della sinistra dev’essere tornare a pensare nella chiave accennata. Spezzare alcuni vincoli e immaginare per quali strade o sentieri diventi possibile e necessario aggredire l’inedito. Il tema scelto da “Strade”, più che alludere, credo agisca pienamente su questo piano. Valutare entità e uso delle risorse disponibili, riequilibrare spesa e opportunità tra le generazioni, sobbarcarsi il peso del debito accumulato: sono snodi decisivi per tentare – almeno tentare – di sgrossare quel blocco di marmo che chiamiamo modernità e che difficilmente sapremo modellare usando solo uno scalpellino dalla punta arrotondata.

E allora? Bene, allora per prima cosa è saggio non immaginare che si debba partire da zero. Che alle spalle vi siano solamente occasioni mancate o peccati consumati. Non è così. E se oggi un Paese come il nostro, dove pure la crisi ha operato non di cesello ma scardinando diverse certezze, ha agganciato una prima ripresa, ecco questo dev’essere già motivo di giudizio. Inutile elencare gli indicatori, ma giusto ricordare che ci sono. Da quello più sfruttato, il segno più sulla crescita, a una ripresa occupazionale, la tenuta sostanziale e in alcuni comparti brillante dell’export, fino a una riduzione del deficit combinata a un parziale recupero dell’inflazione, ancora sotto la soglia auspicata da Francoforte ma con un’inversione di tendenza rispetto agli anni duri della recessione. Sull’altro piatto della bilancia – e tacerlo sarebbe un errore non meno grave – i dati allarmanti di Istat e Caritas su fenomeni che hanno prodotto nel decennio il raddoppio delle persone in condizione di povertà assoluta.

Ora, sull’insieme di questi fenomeni ha agito l’agenda della legislatura appena conclusa. Dagli interventi regolativi sul mercato del lavoro (dove una volta o l’altra sarà buona cosa esercitarsi in uno studio dettagliato e rigoroso degli effetti) all’introduzione del reddito di inclusione, prima forma di sostegno mirato rivolto a nuclei familiari in condizione di grave disagio economico e sociale. Si tratta di risorse ancora limitate rispetto alle necessità? Per molti versi è così, ma l’avere sbloccato una condizione che ci vedeva, assieme alla Grecia, fanalino di coda dell’Europa tutta su una materia di tale rilievo e sensibilità, lo considero tra gli esiti più fausti degli anni alle spalle. Molto resta da fare, non vi è dubbio. Ma torniamo al punto e alla scommessa, sinora largamente aggirata, di poter aggregare una batteria di riforme e provvedimenti sotto l’egida di quel nuovo pensiero solamente accennato.

Mettiamola così: se il passaggio d’epoca ha lo spessore, la portata, che in tanti sostengono, è quasi un obbligo indurre uno scarto nella gestione delle politiche di Stati e governi. Bisogna farlo perché oggi più di qualcosa cambia alla radice e lo fa sotto i nostri occhi. Penetrando le nostre esistenze. Sono cose note: Uber è la più grande compagnia al mondo di vetture a noleggio, ma non possiede un taxi. Facebook è il media più popolare sulla terra, ma di suo non crea un solo contenuto. Alibaba è il rivenditore per eccellenza, eppure non ha mai compiuto un inventario. E Airbnb batte tutti come fornitore di alloggi anche se non possiede neppure una locanda a due stelle. Cosa vuol dire un mondo dove il profitto si sgancia dalla proprietà? E dove – accadrà sempre di più – si useranno molte cose senza l’obbligo a possederle? Voglio dire che quella dinanzi a noi è alla radice una realtà diversa. Dove i servizi tendono a dominare sui prodotti. Ma quest’ultimi incoraggiano la proprietà. I primi la scoraggiano. È il passaggio da una “proprietà che si acquista” a un “servizio che si affitta”. Tutto ciò in un sistema che alimenta la condivisione. Di immagini, per dire. Ogni giorno un miliardo e ottocento milioni di nuove fotografie invadono la Rete. C’è chi la chiama la forma più blanda di un nuovo “socialismo digitale”.

Se fosse uno Stato, Facebook sarebbe la nazione più grande del pianeta. Eppure l’economia di questo gigante politico si fonda sul lavoro non retribuito di un miliardo di persone che per ore crea contenuti e li fa viaggiare. Documenta eventi, carica foto o video che a loro volta alimentano conoscenze e scambi. Mai nella storia umana si sono prodotti più libri, canzoni, film, opere dell’ingegno. Chi filtrerà questa mole di contenuti – siano famiglie, insegnanti, marchi, punti vendita, governi autoritari, i nostri amici o noi stessi – avrà un potere enorme e il modo di esercitarlo condizionerà molte cose. L’impatto di tutto ciò sarà gigantesco. Nella vita di miliardi di persone. Nella qualità della democrazia in tutto l’Occidente. Lo sarà sui sistemi giuridici che per la maggior parte continuano a essere agganciati alle vecchie regole della proprietà. Ma che dovranno misurarsi con la dimensione dell’accesso e riflettere sulla centralità delle Reti rispetto a quello delle copie.

Il punto è che la svolta necessaria anche nella nostra politica economica e sociale non pende dall’alto come un caciocavallo appeso. Nasce dal basso. Dai bisogni di vite segnate da questi mutamenti e che sempre di più lo saranno. Perché c’è un legame stretto tra le cose accennate e l’esigenza di ciascuna e ciascuno a vedersi riconosciuti uno spazio, una funzione, nella società dove si cresce. Legare la realtà per ciò che è destinata a divenire o già è, ai diritti dei singoli alla cittadinanza, a un lavoro e un reddito, è la nuova frontiera per noi. Il nostro New Deal. Quello che collega pensiero e azione. Ma farlo vuol dire liberarci da parecchi pregiudizi. Rovesciare il sapere di ieri. Abbracciare qualche eresia. Di questo stiamo parlando. Di come non le promesse, ma una visione – questa sì – sia oggi in grado di restituire linfa alla pianta.

Allora se parliamo di lavoro – del diritto al lavoro e delle regole di quel mercato – io dico: bene al taglio permanente del cuneo contributivo per il tempo indeterminato. E aggravi di costo per quello a termine. Un salario minimo orario come forma di tutela per le qualifiche medio-basse. E un assegno di ricollocazione strutturale per chiunque rimanga senza lavoro. Investire ancora di più sull’innovazione dell’Industria 4.0. Sul cosa produrre e come e dove farlo. A quei temi mi sento di sommare la necessità di una legge sulla rappresentanza, da elaborare con sindacati e parti sociali.

Oggi però almeno due cose credo si debbano aggiungere. Le considero un tratto di quella identità che sola può rigenerare la parola sinistra. La prima è adottare una legge simile o eguale a quella approvata in Islanda, dove dal primo gennaio di quest’anno è in vigore la norma che impone alle aziende, pubbliche o private, di corrispondere, a parità di funzioni, lo stesso stipendio a donne e uomini. La novità, in quel caso, è che saranno le aziende stesse a dover certificare il rispetto del principio, mentre in assenza di ciò scatteranno multe e sanzioni pesanti. L’obiettivo è eliminare ogni disparità salariale nell’arco dei prossimi quattro anni. In un Paese come il nostro dove quella disparità si combina tuttora con un tasso di occupazione femminile che in alcune regioni è fanalino di coda dell’Europa tutta, diciamo che questa disciplina è un atto di equità. Segna una distribuzione diversa delle opportunità. È un passo di civiltà.

La seconda rottura è più ambiziosa ancora. Si lega a quel mondo descritto qualche istante fa. A un impatto della robotica destinato nei prossimi anni a bruciare oltre 50 milioni di posti di lavoro in tutta Europa. Nove soltanto in Italia. Altri impieghi vedranno la luce, questo è vero. Ma rovesciare le categorie e misurarsi col nuovo è la sola chiave per non rimanere sepolti dalle novità. E allora ci sono dei tabù che vanno affrontati. E superati. Perché di fronte alla valanga che si stacca dalla cima, il mantra del liberismo non servirà. Ricette fiscali che riciclano cibo avariato saranno perdenti. L’idea che tagliando le aliquote marginali ai più ricchi la marea sia destinata a salire e anche i poveri vedranno alzarsi il canotto è una bugia che il tempo ha liquidato e che non troverà in nessuna flat tax il modo per resuscitare. Non servirà il mantra liberista, ma anche il ricettario socialista si mostrerà inadeguato a cogliere il verso della storia. Anche a sinistra dobbiamo trovare il coraggio di trasformare ciò che oggi minaccia la vita di milioni di persone, in una leva. Una opportunità. Insomma quel cambio d’epoca non può tradursi in rassegnazione per chi non si chiami Mark Zuckerberg o Jeff Bezos.

Dobbiamo fondare altri miti e farli divenire frontiere del diritto. Dobbiamo ripensare alla radice i sistemi di protezione sociale, a partire da cosa intendiamo – da ora ai prossimi anni e decenni – per assistenza, previdenza, cittadinanza. L’ho appena ripetuto anch’io, salario minimo, una contrattazione collettiva, sussidi contro la disoccupazione. Di tutto questo non si può e non si deve fare a meno. Diceva Sant’Ambrogio, il Vescovo di Milano, “il benestante che si rifiuti di aiutare un indigente commetterebbe un peccato paragonabile al furto”. Se valeva quattro secoli dopo Cristo figuriamoci ora. Ma non è sul principio della carità che possiamo fondare le regole della convivenza per chi arriverà dopo di noi. C’è un compito della politica, ed è sempre stato così. A un certo punto della storia si affacciano figure che di quella storia spezzano il ritmo. La pura continuità. E mutano le categorie del pensiero e del governo.

Fu Condorcet per primo a teorizzare un sistema previdenziale. Spiegò che la rovina di un gran numero di famiglie si poteva prevenire non più con l’aiuto dei ricchi ai miserabili, ma grazie al mutuo soccorso tra i lavoratori. Fu come aprire il sipario su un’altra scena. Poi ci pensò il cancelliere Bismark verso la fine dell’800. Lui aveva il problema di contenere la crescita del movimento socialista: faceva politica. Ma anche per quello istituì la prima assicurazione obbligatoria per i lavoratori a coprire invalidità, malattie, anzianità. Coinvolse datori di lavoro e sindacati. Si oppose la sinistra rivoluzionaria temendo una conciliazione fuori tempo tra capitalismo e lavoratori. E anche quella riformista convinta che servisse un sistema più generoso. Ma la storia prese una piega diversa. Arrivò poi un socialista francese a parlare di una previdenza a copertura di tutti i rischi, così da rimpiazzare l’assistenza. E nel 1957 la Svezia, per prima, introdusse un programma di reddito minimo esteso a tutta la nazione.

Noi – l’ho accennato sopra – in questa rincorsa siamo arrivati ultimi con quella norma che abbiamo voluto approvare l’anno passato. Ma essere arrivati in fondo al gruppo non è una buona ragione perché si resti all’ultimo posto anche nella tappa che inizia. Oggi esiste finalmente il reddito di inclusione, condizionato a una serie di profili. Esiste l’assegno universale per i figli. Tocca alla sinistra accelerare sulla soluzione di un assegno previdenziale di base – 448 euro, corrispondenti alle attuali pensioni sociali – da garantire come reddito di partenza per la futura carriera pensionistica di chi entra ora nel mercato del lavoro. Una dote senza la quale condanneremo i nostri figli e nipoti a una pensione da fame. E ancora, allargare le maglie di crediti d’imposta rimborsabili, ad esempio per completare gli studi. L’anno passato, nei soli primi cinque mesi, 890mila italiani hanno chiesto un finanziamento per iscrivere loro stessi o i loro figli a un corso di perfezionamento o a un master. 170 milioni di euro erogati con un balzo di oltre il 500% rispetto a cinque anni prima. Quando si dice che la consapevolezza delle persone è più avanti dello Stato. E ancora, un sostegno incentivato alla riduzione dell’orario di lavoro.

Insomma, una batteria di interventi, progressivi, dove però – in fondo al percorso – è giusto che da sinistra si apra la discussione vera. Quella su una riorganizzazione profonda, radicale, del nostro sistema di promozione e protezione sociale, aprendo il capitolo sinora sbarrato di un “reddito di base” universalistico. Non la declinazione ennesima di uno strumento per contrastare la povertà. Ma, in un mondo e un mercato del lavoro profondamente modificati, la via per estirparla, quella povertà, e colpire al cuore i rapporti di potere che fino a qui l’hanno alimentata e protetta. Servono coraggio e creatività. Serve la forza di ribaltare il tavolo delle nostre certezze. Serve una nuova identità della sinistra. Ma, viene da dire, se non ora, quando?