L’equilibrio tra crescita e rigore nel nostro Paese non passa primariamente per la via fiscale, ma chiama inevitabilmente in causa tutte quelle misure che possono essere adottate per stimolare la produttività dei fattori. Tra queste, le liberalizzazioni sono la misura con la massima probabilità di generare effetti (almeno parziali) in tempi relativamente brevi.

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La concorrenza è il grande assente dai programmi dei partiti politici che si presenteranno alle elezioni il prossimo 4 marzo. Se ne capiscono facilmente le ragioni: sebbene in tutti i sondaggi gli italiani si dichiarino favorevoli alle liberalizzazioni, in concreto quando una rendita viene messa in discussione la voce di chi la difende si alza spesso più forte di quella che reclama apertura del mercato e libertà di impresa. Il caso recente della direttiva Bolkestein ne è forse la dimostrazione più emblematica: nonostante gli obblighi europei, nonostante le infinite ragioni di ordine economico e di equità a favore delle gare, nonostante una parte non marginale degli ambulanti le volessero, il Parlamento ha entusiasticamente votato, con poche e isolate voci contrarie, l’ennesima proroga delle procedure di assegnazione competitiva degli spazi.

La ragione per questa apparente allergia della politica italiana al mercato è duplice. In primo luogo, ovviamente, l’opacità del nostro processo decisionale – specie durante le sessioni di bilancio – tende a incrementare l’influenza dei gruppi di interesse, che possono pilotare dei blitz rispetto ai quali diventa poi difficile innestare la marcia indietro. La cattura del regolatore è in qualche modo una componente fisiologica della politica, ma nel nostro Paese, anche alla luce della disconnessione tra la rappresentanza eletta e l’elettorato, assume talvolta tratti grotteschi. L’altro motivo sta nella scarsa cultura economica degli italiani, che si riflette nella qualità del discorso pubblico in tema di economia. Un recente paper di Elsa Fornero e Ivan Lagrosa ha mostrato come la mancanza di conoscenze economiche non abbia conseguenze solo sulle scelte individuali dei cittadini, ma anche sui loro comportamenti elettorali: sicché essi finiscono non di rado per sostenere proposte che solo a una lettura molto superficiale sono allineate con l’interesse generale. Anzi, appare vero il contrario: l’opinione pubblica non di rado si schiera contro politiche che avrebbero conseguenze generalmente positive per il Paese, in quanto tali conseguenze possono avere natura controintuitiva o determinare nell’immediato costi di aggiustamento a carico di specifici gruppi.

Il paradosso, così, è che l’Italia in questi anni è riuscita a introdurre riforme radicali, per esempio, in campo pensionistico o nella disciplina del lavoro, senza contemporaneamente intervenire in modo almeno altrettanto netto sul fronte dell’apertura del mercato (l’approvazione della legge per la concorrenza è arrivata tardivamente, nell’agosto 2017, e la norma è stata in molte parti depotenziata, pur contenendo diverse previsioni importanti). L’aspetto ironico di questa vicenda è che le liberalizzazioni sono spesso invocate a latere delle riforme del mercato del lavoro proprio per addolcirne gli effetti, in quanto – aumentando la concorrenza – tendono a far calare i prezzi dei prodotti e conseguentemente rafforzare il potere d’acquisto dei salari (lo ha documentato, tra gli altri, uno studio di Sergi Lanau e Petia Topalova per il Fondo monetario internazionale). Se così non fosse, d’altronde, non si capirebbe l’insistenza con cui la Commissione europea ci ha più volte sollecitati sia a dare il via libera alla legge per la concorrenza, sia a continuare con la progressiva apertura dei mercati. Una strada che il nostro Paese ha seguito solo in parte e comunque sempre in modo contraddittorio.

Né mancano (o dovrebbero mancare) le idee su quali aspetti affrontare: l’Indice delle liberalizzazioni dell’Istituto Bruno Leoni può rappresentare un punto di partenza per confrontare lo stato di avanzamento della concorrenza in Italia rispetto agli altri Stati membri dell’Unione europea – e dunque individuare quali siano i settori più bisognosi di intervento, dalle poste alle ferrovie. Oppure si può riprendere in mano la segnalazione dell’Antitrust, che solo in parte è stata raccolta nella legge sulla concorrenza. O, ancora, si possono esaminare le ragioni per cui, in molti ambiti, il nostro Paese appaia iper-regolamentato, almeno a giudicare dai risultati dell’indagine Product Market Regulation dell’OCSE. Il messaggio univoco che arriva da fonti tanto differenti – e altre ancora – è che, se c’è un problema, è l’imbarazzo della scelta.

A rendere le liberalizzazioni tanto potenzialmente strategiche per l’Italia è però, e forse soprattutto, un’altra questione: l’Italia non ha spazio fiscale per intervenire altrimenti e spingere l’economia. Data l’enorme dimensione del nostro debito pubblico in rapporto al Pil – e dunque l’aspettativa di tassazione futura che esso si porta appresso – è impraticabile sia la via keynesiana del deficit spending, sia quella dello stimolo fiscale dal lato dell’offerta tramite una secca riduzione delle tasse. Non che quest’ultima non serva: il problema è che non può che essere coperta da corrispondenti tagli di spesa, i quali, generalmente, sono difficili da realizzare dall’oggi al domani, e richiedono piuttosto una visione pluriennale. Il taglio delle imposte, dunque, può esserci ma deve essere graduale. Ne segue che non è nelle nostre possibilità l’ipotesi di uno shock fiscale di grandi dimensioni: non tanto perché, se lo facessimo, scateneremmo l’ira di Bruxelles, ma perché ben prima i mercati si farebbero carico del compito di inviarci un messaggio forte e chiaro, come avvenne nel 2011.

Se ne deduce che il presunto dilemma tra crescita e rigore – che in generale è comunque una domanda mal posta – nel caso dell’Italia proprio non esiste: in quanto l’abbandono del (relativo) rigore degli ultimi anni non porterebbe a una maggiore crescita né nel breve né nel lungo termine, ma a un ulteriore aggravio della situazione. O, in altri termini, l’equilibrio tra crescita e rigore nel nostro Paese non passa primariamente per la via fiscale, ma chiama inevitabilmente in causa tutte quelle misure che possono essere adottate per stimolare la produttività dei fattori, dal miglioramento del mercato del lavoro (sulla scia del Jobs Act) alla riforma della pubblica amministrazione, dalla sempre necessaria revisione istituzionale alle liberalizzazioni. Tra i possibili provvedimenti citati, le liberalizzazioni sono proprio quello con la massima probabilità di generare effetti (almeno parziali) in tempi relativamente brevi e di sortire fin da subito conseguenze positive per la maggior parte degli individui (esclusi, naturalmente, i percettori di rendite).

Le liberalizzazioni sono, in questa prospettiva, l’unica leva di politica economica attraverso cui si può sperare di alzare il prodotto potenziale – e dunque stimolare crescita, innovazione e occupazione – già nel breve termine. Purtroppo, quale ne sia la ragione, i partiti italiani faticano a comprendere le opportunità offerte da un pacchetto coraggioso di riforme di apertura del mercato, in quanto temono che i contraccolpi elettorali da parte dei gruppi colpiti siano superiori rispetto al maggior consenso raccolto tra i consumatori in generale. Eppure, non mancano esempi in senso contrario: la decisione del Tribunale di Milano di bandire i servizi peer to peer di Uber sollevò un’ondata di proteste da parte dei cittadini, specie in quelle città che avevano potuto sperimentarne l’utilizzo. Siamo sicuri che consentire per legge queste attività, e più in generale allargare le maglie per favorire l’economia delle App, non si tradurrebbe in un consenso più esteso del mero voto dei tassisti o di altre corporazioni interessate? Al momento non possiamo rispondere a questa domanda, perché empiricamente nessuno si è fatto carico fino in fondo degli interessi dei consumatori. Speriamo che la prossima legislatura sia quella buona, anche se temiamo di no.