La retorica del "bene comune" ostacola la formazione di un mercato veramente libero. Ma perché noi italiani ci ostiniamo a vedere la concorrenza come un nemico da abbattere? È davvero solo colpa della politica?

palma grande

Dal 2009, nel nostro ordinamento è previsto uno strumento legislativo finalizzato a "rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all'apertura dei mercati" e a "promuovere lo sviluppo della concorrenza" (art. 47, comma 1 della legge 99/2009).

La previsione di una "legge annuale per il mercato e la concorrenza" fu introdotta con un emendamento presentato dall'allora deputato Benedetto Della Vedova a un provvedimento in materia di sviluppo e internazionalizzazione delle imprese e avrebbe dovuto in teoria comportare, ogni anno, l'adozione da parte dell'esecutivo di un disegno di legge contenente "norme di immediata applicazione, al fine, anche in relazione ai pareri e alle segnalazioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato... nonché alle indicazioni contenute nelle relazioni annuali dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e delle altre autorità amministrative indipendenti, di rimuovere gli ostacoli all'apertura dei mercati, di promuovere lo sviluppo della concorrenza, anche con riferimento alle funzioni pubbliche e ai costi regolatori condizionanti l'esercizio delle attività economiche private", nonché, per gli stessi fini, "una o più deleghe al Governo per l'emanazione di decreti legislativi".

La legge sulla concorrenza era stata concepita e partorita dal legislatore ipotizzando che i provvedimenti legislativi in materia non potessero più avere un carattere discrezionale e occasionale, selezionando di volta in volta, secondo criteri di "compatibilità politica", i settori e le attività più o meno suscettibili di riforma o di tutela, ma dovessero porsi l'obiettivo di rimuovere in modo strutturale, organico e politicamente neutrale i meccanismi anticoncorrenziali, di natura sia fiscale sia regolatoria, che condizionavano (e condizionano) lo sviluppo e l'efficienza dei mercati.

Il presupposto culturale di questa scelta era che il legislatore dovesse dismettere l'approccio interventistico e abbandonare l'ambizione di indicare ope legis la direzione e le forme di organizzazione interna a cui i diversi mercati avrebbero dovuto conformarsi, quasi che le nuove politiche pro market fossero ideologicamente gemelle delle vecchie politiche industriali.

Al contrario, si ipotizzava che il governo, nel redigere il disegno di legge, dovesse quasi limitarsi a trascrivere il contenuto dei rilievi delle autorità indipendenti e addirittura giustificare, nella relazione di accompagnamento alle camere, le ragioni per cui in alcuni casi avesse scelto di non darvi seguito. Se - questa era la logica - la libertà, la trasparenza e la concorrenzialità dei mercati rappresentano oggi per il legislatore, soprattutto in virtù della normativa europea, un vincolo di natura sostanzialmente costituzionale, il Parlamento ha solo il compito di manutenere e adattare a questi fini la legislazione ordinaria, non di negoziare caso per caso con operatori e autorità di mercato un compromesso più o meno derogatorio dei principi generali.

Dal 2009 in poi di questa logica "ideale" non risulta nessuna traccia nell'attività liberalizzatrice e pseudo-liberalizzatrice delle camere, malgrado alcuni decisi interventi siano stati tentati e in parte realizzati, in particolare dal governo Monti. Anzi, fino a qualche giorno fa lo strumento della "legge annuale" non era mai stato attivato, malgrado dal 2009 ad oggi l'Antritrust abbia inviato a Governo e Parlamento ben quattro ponderosissimi dossier di segnalazioni.

A invertire la rotta, per la prima volta, è stato il governo Renzi con il disegno di legge licenziato dal Consiglio dei Ministri dello scorso 20 febbraio. Non è questa la sede per valutare il contenuto del provvedimento, che è stato oggetto di un faticoso braccio di ferro preparatorio e nell'esame delle camere sarà esposto a un negoziato probabilmente ancora più complicato. È evidente che non si tratta di un provvedimento organico e che si limita agli interventi politicamente compatibili con i rapporti di forza interni alla maggioranza, con il rilievo tutt'altro che centrale assegnato a questo dossier nelle priorità dell'esecutivo.

D'altra parte, la parzialità delle scelte non può essere onestamente imputata al Ministro Guidi, che non potendo fare tutto quello che doveva (e probabilmente voleva) ha ragionevolmente pensato di dovere fare tutto quello che poteva, in parte accettando di stralciare preventivamente i capitoli impossibili (a partire da quelli delle reti, delle infrastrutture e dei servizi pubblici locali), in parte scegliendo di arretrare rispetto alla posizione annunciata su altri capitoli comunque molto sensibili (a partire dagli evergreen dei taxi e delle farmacie).

Però, ragionando più in generale, dei ritardi e delle contraddizioni di un processo riformatore tuttora gravemente incompleto si può incolpare solo una classe politica refrattaria e catturata dagli interessi delle lobby? Questa imputazione è coerente con la visione sindacal-consumeristica delle liberalizzazioni come forma di protezione dei cittadini dagli abusi del mercato e dunque con la logica astrattamente risarcitoria che ispirò, ad esempio, le famose "lenzuolate" di Bersani.

Il tradizionale j'accuse ai politici venduti occulta però un dato politicamente più profondo, rappresentato dalla diffidenza che continua a suscitare l'idea che il mercato dei beni e dei servizi, anche di quelli essenziali, sia tanto più "buono" quanto più rispettoso di regole e condizioni di mercato, a partire da una piena libertà e responsabilità degli operatori economici, e che il suo funzionamento non sia affatto incompatibile con il perseguimento di finalità sociali. Le liberalizzazioni in questi anni non si sono solo impantanate e imbastardite nelle trappole del Parlamento, ma si sono scontrate, uscendone quasi sempre sconfitte, con la resistenza diffusa e diffusamente rivendicata alla logica "mercatista". Il referendum del 2011, passato ingiustamente alla storia per avere impedito la "privatizzazione dell'acqua pubblica" e che ha in realtà consolidato le reti politiche del capitalismo municipale e la gestione opaca dei servizi pubblici locali, ha rappresentato una conferma eclatante di questa diffidenza.

L'ideologia dei "beni comuni" - cioè dell'incompatibilità tra criteri di razionalità economica e di giustizia sociale nella gestione dei servizi pubblici essenziali - ha guadagnato – immeritatamente, ma indiscutibilmente - una vera e propria egemonia culturale, al punto che quando il "liberalizzatore" Bersani dovette battezzare la propria coalizione politica scelse il nome di "Italia bene comune".

D'altra parte, nella prima grande sfida democratica sul tema delle liberalizzazioni - i referendum radicali su orari e licenze degli esercizi commerciali, nel 1995 – i promotori uscirono sconfitti dalle urne, essendosi dovuti confrontare non solo con il partito unico di Confcommercio, capace di raggruppare tutte le forze politiche, ma anche con la freddezza di un'opinione pubblica che, pur avendo iniziato a servirsi nella grande distribuzione, continuava a vederla come una specie di nemico di classe.

Il piglio pro-liberalizzazioni, che pure ricorre frequentemente nella pubblicistica e nella convegnistica politica e torna regolarmente a fare capolino nei programmi di governo, tende in questo quadro a emergere nella discussione pubblica come una pretesa mossa da interessi strumentali e particolaristici, e non da un'idea dell'interesse generale alternativa e più efficiente di quella "bene-comunista". Alla fine, sono i liberalizzatori ad apparire come i più pericolosi e spregiudicati lobbisti.

A spiegare perché in Italia le liberalizzazioni si incaglino non basta dunque la teoria della public choice, che dimostra come i portatori di interessi organizzati, concentrati e presenti tendano, a prescindere dal numero, a prevalere sui portatori di interessi diffusi, disorganizzati e futuri e ad appropriarsi democraticamente dei meccanismi della decisione pubblica.

Serve anche un'analisi di quel super-ego politico trasversale - non solo di sinistra, anzi paradossalmente sempre meno - che accetta le liberalizzazioni quando sono una sorta di sconto di Stato imposto ai venditori, ma continua a pensare che il mercato "lasciato a se stesso" sia un meccanismo di sfruttamento economico del consumatore e dunque necessiti di un contrappeso politico.

Insomma, sulle liberalizzazioni, prima di vincere la partita sul piano legislativo, occorrerebbe tornare a giocarla con una qualche fantasia sul piano culturale.

@carmelopalma