Il proibizionismo e il contrasto al narcotraffico costano più di quanto rendono, non solo in termini finanziari ma anche in termini di vite umane. Vietare le droghe non è servito a farle sparire, ma solo ad arricchire a dismisura le mafie che ne gestiscono il mercato.

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Ha una storia lunga, il proibizionismo. Una storia lunga almeno cento anni. Ufficialmente comparve con la convenzione dell'Aia del 1912, dove per la prima volta si stabilirono a livello internazionale controlli e divieti alla produzione, importazione e distribuzione degli stupefacenti. L'idea proibizionista, però, nasce prima.

Come spesso accade, prescrizioni e divieti nascono dall'illusione di poter creare la “società perfetta”, imponendo la morale per legge. Ovvero, vietando agli individui i comportamenti che certa morale reputa deprecabili. Anche per il proibizionismo è stato così. Ma la storia ha sempre più fantasia di noi uomini, e l'eterogenesi dei fini è il suo modo per dirci che le nostre utopie hanno fallito. Anche questo è puntualmente avvenuto con il proibizionismo.

Billy Sunday, un famoso predicatore religioso nell'America degli anni '20, paragonò l'alcol a un demone e il proibizionismo alla redenzione dell'umanità. Will Rogers, suo contemporaneo e star del cinema, prosaicamente gli rispose che “il proibizionismo è come il comunismo: l'idea è buona, però non funziona”.

La storia pare aver dato ragione a Rogers. Il proibizionismo americano degli anni '20 è un esempio storico di quanto certi divieti possano diventare dannosi, oltre a essere inutili. Non è chiaro se le patologie legate al consumo dell'alcol in quel periodo si ridussero grazie al divieto. Molti sostengono che, in verità, la mortalità aveva già cominciato a ridursi prima che il famoso 18° emendamento entrasse in vigore. È chiarissimo, invece, che il proibizionismo fu l'Eldorado delle organizzazioni criminali, che fecero affari d'oro in quel periodo. Grazie al traffico illegale di alcolici i loro profitti crebbero, insieme alla corruzione e alla violenza.

Proibire il consumo di stupefacenti è cosa discutibile anche sotto il profilo filosofico. Un liberale non aderirebbe mai all'idea che il paternalismo di stato debba prevalere sulla libertà di scelta individuale. Anche quando si parla di scelte potenzialmente autolesioniste. Ma possiamo mettere da parte i principi. Non sono necessari. La strategia proibizionista è semplicemente inopportuna, si sconfessa da sé, e il suo fallimento è un fatto di puro realismo economico. Anche chi è contrario al libero consumo degli stupefacenti ce l'ha davanti agli occhi.

Gli economisti - per lo meno, la maggior parte - hanno preso posizione da molto tempo sul tema, manifestando seri dubbi sull'efficacia della strategia di divieto assoluto e guerra totale alla droga. L'opinione espressa da Milton Friedman è una pietra miliare in tal senso.

Che il consumo di stupefacenti possa cessare con l'introduzione del divieto è un'utopia. Il mercato continua a funzionare in forma illegale. I consumatori abituali di droghe, gli incalliti che da soli rappresentano circa la metà della domanda, non rinunciano ad acquistarle. Nemmeno se il prezzo va alle stelle. Piuttosto tagliano tutte le altre spese dal proprio budget. Potranno persino arrivare a ridurre il cibo, ma non “la roba”.

La domanda di stupefacenti ha un’elasticità bassissima. E il margine di profitto del venditore, che è inversamente proporzionale all'elasticità della domanda, è molto elevato. Il monopolio di un mercato illegale, per definizione, appartiene all'organizzazione criminale più potente e violenta. Per cui, il gioco è fatto.

Il divieto imposto dallo stato e le politiche di contrasto all'uso delle droghe, paradossalmente, producono proprio quel genere di danni che si proponevano di evitare. Li producono in misura maggiore e più grave, in termini di corruzione e reati violenti.

Il proibizionismo induce alla violenza i consumatori, che rubano e rapinano perché hanno bisogno di danaro per acquistare la sostanza a prezzi elevati sul mercato illegale. Non vi sarebbero costretti se fosse disponibile a prezzi bassi su un mercato libero e regolamentato. Si genera violenza quando i trafficanti si fanno la guerra per il controllo di un mercato reso redditizio proprio dal proibizionismo. I profitti rendono le organizzazioni incombenti sempre più forti. Il loro potere a volte sembra inattaccabile. Tutto questo non accadrebbe se il mercato tornasse libero e legale. Quando, all'inizio degli anni '30, il proibizionismo in America cessò, infatti, le organizzazioni criminali abbandonarono il traffico di alcolici per spostare i propri interessi verso altre attività illegali.

E invece, oggi, le forze dell'ordine sono costrette alla violenza, in risposta alla violenza del narcotraffico, in una spirale crescente ma priva di risultati significativi, anche a causa della corruzione che inevitabilmente si annida tra le maglie del controllo. E con un dispendio enorme di risorse, che potrebbero essere meglio impiegate in misure meno punitive, meno ideologiche, ma più efficaci contro l'abuso delle sostanze stupefacenti. Soprattutto in termini di informazione, cure sanitarie e recupero delle persone.

L'impostazione proibizionista condiziona ancora oggi le strategie della comunità internazionale e di quasi tutti gli stati. Da decenni le politiche di contrasto all'abuso degli stupefacenti puntano alla totale eliminazione di quel mercato. Pur essendo chiaro, ormai, che questo obiettivo è praticamente irrealizzabile.

L'azione diretta alla limitazione della domanda, in molti stati, ha fatto leva sulla criminalizzazione dei consumatori, che spesso smerciano anche piccole quantità. Ma tenerli in prigione non serve a molto. Fa solo crescere a dismisura i costi di law enforcement. In uno studio di pochi anni fa si metteva in evidenza che in Italia i detenuti per reati legati alla tossicodipendenza erano oltre 20 mila, e che il costo di mantenimento annuo ammontava a circa 50 mila euro per ciascuno, con una spesa totale di circa un miliardo di euro all'anno per lo stato.

Secondo alcune stime più recenti, i costi totali di law enforcement, inclusivi delle spese relative alle forze di polizia impegnate nell'azione di contrasto al traffico nazionale, delle spese per il lavoro della magistratura e delle spese carcerarie, ammontano a circa 2 miliardi di euro all'anno. A questa cifra vanno aggiunti gli introiti fiscali derivanti dalla legalizzazione del mercato. Un gettito potenziale di 8 miliardi di euro. In totale l'applicazione della normativa proibizionistica sul commercio e il consumo degli stupefacenti costa allo stato italiano circa 10 miliardi di euro all'anno.

L'azione diretta alla limitazione dell'offerta di stupefacenti, invece, si è globalizzata. Anche sotto questo profilo la strategia proibizionistica ha dimostrato tutti i propri limiti, perché non è riuscita a eliminare la produzione e il traffico internazionale di droga. La supply chain degli stupefacenti ha una grandissima capacità di riadattarsi e ridislocarsi a livello internazionale. Le vittorie ottenute su un territorio, sconfiggendo magari il cartello locale, vengono rapidamente vanificate dallo spostamento della produzione e dei traffici nei territori e nei paesi limitrofi. Gli esperti di traffici internazionali di stupefacenti, in linguaggio anglosassone lo chiamano balloon effect. In America Latina è noto come effetto cucaracha, per fare il paragone con i fastidiosi scarafaggi. Puoi scacciarli da un angolo di casa ma poi rientrano sempre da qualche altra parte.

È quello che abbiamo visto in Sudamerica negli ultimi trent'anni. Dopo la sconfitta dei cartelli colombiani, in particolare del famoso cartello di Medellin guidato da Pablo Escobar negli anni '90, e il declino delle FARC all'inizio del millennio, le attività di produzione si sono spostate rapidamente dalla Colombia in Bolivia e in Perù.

La sconfitta dei cartelli colombiani viene attribuita al Plan Colombia promosso dagli Stati Uniti alla fine degli anni '90. Il governo americano da allora stanzia sistematicamente ogni anno ingenti risorse per sostenere il governo colombiano nella lotta al narcotraffico. La strategia prevede anche la distruzione diretta delle piantagioni. Ma in realtà, tra il 2000 e il 2007 pare che il numero totale di ettari coltivati a coca in tutta la regione andina sia ulteriormente cresciuto. Persino in Colombia è aumentato di oltre il 30 per cento. A ulteriore dimostrazione dell’inefficacia della guerra totale alle droghe.

Il controllo delle vie del traffico, che in precedenza era prerogativa dei cartelli colombiani, è passato nelle mani dei cartelli messicani. La guerra tra questi ultimi fino a oggi ha causato circa 60 mila morti. Cifra alla quale ha contribuito anche l'azione di contrasto promossa circa dieci anni fa dal governo di Felipe Calderon.

Il proibizionismo e il contrasto al narcotraffico negli ultimi decenni hanno mostrato limiti evidenti. Costano più di quanto rendono. Non solo in termini finanziari ma anche in termini di vite umane. Il mercato degli stupefacenti non potrà mai essere completamente eradicato.

La produzione e il consumo delle droghe sono un fenomeno da governare con metodi più efficaci che non la guerra senza quartiere condotta fino a oggi. E, se la comunità internazionale fatica a prendere atto di questa evidenza, è solo perché dietro la strategia di guerra alla droga si celano interessi più complessi, di geopolitica e di rapporti internazionali, che non il semplice obiettivo di contrasto all'abuso degli stupefacenti.