Legalizzare le droghe e proibire il capitalismo? I paradossi del Saviano-pensiero
Innovazione e mercato
Il Guardian ha eletto Zero Zero Zero libro dell'anno e con un articolo (qui, la traduzione in italiano) pubblicato il 26 dicembre ha entusiasticamente compendiato la "filosofia economica" del narcotraffico, che fin dai tempi di Gomorra costituisce il sottofondo ideologico dell'opera (sia bene inteso: meritoria) di denuncia civile di Roberto Saviano.
Saviano nei suoi ragionamenti meno ambiziosamente profetici sembra partire da una verità fattuale, vanamente e variamente negata dai teorici della war on drugs e condivisa dai sostenitori dell'opzione antiproibizionista. Il potere economico e politico delle narcomafie è la dimostrazione dell'irrimediabile impotenza morale dello Stato etico, che può proibire i consumi (di qualunque "alimento", materiale o spirituale), ma non può inibire i desideri, che prorompono rompendo le barriere dei divieti legali e sfidando la deterrenza delle pene. Tutte le droghe proibite non cessano di essere disponibili, ma lo divengono in modo incontrollabile.
Come sostiene da oltre quarant'anni Pannella, la ragione della sconfitta del proibizionismo sulle droghe è antropologica, prima che politica o economica. Nulla può impedire all'animale umano di volere, cercare e trovare qualcosa che gli procura piacere, finché non impara a dispiacersene. Ma la legge penale è lo strumento meno persuasivo per correggere l'errore, prevenire l'abuso e raddrizzare le inclinazioni più pericolose per la salute fisica e mentale.
Il mercato criminale delle droghe proibite si sviluppa interamente a valle e a causa dell'irragionevole pretesa di aggiustare per legge l'anima fragile dell'animale umano e di rieducarne i desideri a forza di botte. Il proibizionismo, imponendo il sovrapprezzo politico della proibizione al prezzo economico delle sostanze, ha dunque istituito un incentivo criminale alla diffusione delle droghe che c'erano e all'invenzione di quelle che non c'erano, finché non è diventato conveniente farne mercato. Da decenni i legislatori nazionali e internazionali corrono appresso alle droghe proibite ed il risultato è che, lungi dal riuscire a proibirle, non riescono più neppure a censirle. Quante sono le "nuove" molecole dichiarate illecite ogni anno in Europa? Siamo arrivati a oltre un centinaio.
Saviano è un esponente di rilievo del pensiero antiproibizionista, ma non di questo antiproibizionismo. Saviano non si ferma qui. Pensa di andare avanti, anche se in realtà torna indietro ricongiungendosi, per via antiproibizionista, alla stessa logica coattamente "riabilitativa" da cui vorrebbe emancipare la politica sulle droghe.
La vera tesi di Saviano sembra essere questa: non è il proibizionismo ad avere globalizzato il mercato delle droghe e ad avere garantito il successo di un inedito capitalismo mafioso, ma è la globalizzazione capitalista ad avere fornito l'infrastruttura materiale e culturale su cui prospera - e si legittima - il mercato criminale delle droghe proibite. Non sarebbe insomma il proibizionismo ad avere reso profittevoli le droghe, ma il neo-capitalismo ad avere reso profittevole il proibizionismo. Per Saviano il fallimento del proibizionismo non dimostra solo l'esigenza di legalizzare il mercato delle droghe proibite, ma impone soprattutto quella di moralizzare il mercato in quanto tale, sopprimendo l'ormai costituzionale relazione tra la legalità e l'illegalità economica, di cui i narcotrafficanti sono i campioni più emblematici. Se, come dice Saviano, "il capitalismo ha bisogno di organizzazioni criminali e mercati criminali" e "nessun business nel mondo è così dinamico, così incredibilmente innovativo, così leale nei confronti dello spirito del libero mercato come il business globale della cocaina", vuol dire - sottolinea euforicamente Ed Vulliamy sul Guardian - che "la cocaina è puro capitalismo e il capitalismo è come la cocaina".
La "bugia sulla guerra alle droghe" svelata da Saviano non riguarderebbe dunque la debolezza del proibizionismo, ma la forza ontologicamente criminale del capitalismo e l'irrimediabile consustanzialità tra mafia e mercato. Anche volendo sorvolare sulla fondatezza dell'analisi sostanzialmente criminologica del sistema capitalista (niente di nuovo sotto il cielo) il problema è che "riabilitare" il mercato - che è un insieme di relazioni volontarie che collegano miliardi di persone, più o meno informate, abili e capaci di perseguire i propri interessi - nella logica di Saviano implica in qualche modo il ritorno allo Stato etico, cioè alla ribadita pretesa del legislatore di non fissare semplicemente le regole, ma di predeterminare gli esiti del "gioco economico", come di quello politico e civile.
Se il mercato globale non è una piattaforma di scambio ma una macchina infernale di sfruttamento dei bisogni naturali e indotti e di moltiplicazione dei profitti criminali, non basta regolarne meglio il funzionamento. Occorre - diciamolo - proibirlo. Che è esattamente quel che sostengono i proibizionisti a proposito delle droghe, che, proprio perché sono e fanno male, imporrebbero l'adozione di leggi che ne dichiarino non negoziabilmente il disvalore. Alla fine - potremmo dire ironicamente - la logica di Saviano e quella di Gasparri sono meno lontane di quanto sembrino.