Quello di Renzi è un Governo nato sotto il segno delle contraddizioni, com’è stato evidente sin dal primo momento. Non c’era nulla di cui stare sereni quanto alla durata dell’Esecutivo precedente, eppure a questo esortava chi sarebbe diventato da lì a poco il nuovo Presidente del Consiglio. È storia passata, direbbe chi della velocità, nonché della scarsa memoria, ha fatto il proprio mantra. Sono, infatti, trascorsi quasi due mesi da quando la situazione è stata ribaltata: Renzi è il Premier “nuovo”, in ogni senso, e solo questo ha importanza.

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Qualcuno, nei giorni successivi al suo insediamento a Palazzo Chigi, si era augurato che, proseguendo nel mandato, egli avrebbe fatto dimenticare agli italiani l’incoerenza – o, con maggiore concretezza, la discutibile modalità - che ne aveva caratterizzato l’ascesa a Palazzo Chigi. Invece, certe dinamiche continuano a ripetersi impietose, mostrando come il consolidato utilizzo della contraddizione tra intenti proclamati e fatti realizzati costituisca un metodo operativo, non un incidente di percorso. Ne costituisce emblematica conferma il tema della “trasparenza”, menzionata sovente dal “nuovo che avanza”.

Il cosiddetto “cambia-verso”, espressione coniata mediante hashtag su Twitter dal capo dell’Esecutivo al fine di porre in risalto i propri intenti “rivoluzionari” rispetto a un sistema paludoso e vecchio, stenta evidentemente a farsi sostanza. Infatti, al momento in rete non v’è traccia del “decreto 80 euro” approvato dal Consiglio dei Ministri ormai diversi giorni or sono (intitolato “Misure per la competitività e la giustizia sociale - Per un’Italia coraggiosa e semplice”, come si evince da un lungo e articolato comunicato stampa che compare sul sito del Governo, malgrado sul decreto stesso Matteo Renzi abbia tenuto una lunga conferenza stampa e i commentatori abbiano imbastito ogni sorta di riflessione e approfondimento.

Alcuni di essi, esaminando in maniera oltremodo diligente le singole affermazioni esposte nella suddetta conferenza, hanno già effettuato analisi circa l’impatto che certe misure annunciate avrebbero prodotto. Eppure, il testo del decreto non si trova. Qualcuno obietta che un provvedimento è “pubblico” quando viene “pubblicato” sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Al riguardo, occorre precisare che la pubblicazione in Gazzetta di una legge o di una norma avente pari rango è un adempimento che si inserisce nel procedimento di approvazione e risulta funzionale a renderla esistente nell’ordinamento perché essa possa produrre, nei termini previsti, i propri effetti. In questo senso, la pubblicazione sulla Gazzetta concorre al perfezionamento dell’iter normativo di un provvedimento.

Invece, la “pubblicità” cui si fa riferimento quando si parla di disclosure è chiaramente cosa diversa. Essa impone che dell’azione del potere –  in questo caso del governo - possa aversi evidenza “pubblica”, perché sia verificabile il modo in cui esso esercita la delega conferita. In questo senso, appare palese come al concetto di trasparenza così inteso sia connesso quello di accountability – spesso menzionato senza che, forse, se ne colga in pieno il significato – inteso come “credibilità” di chi ha la capacità di incidere nella sfera giuridica di altri soggetti. L’esigenza che i destinatari di provvedimenti di regolamentazione o amministrativi possano verificare l’operato di coloro cui sia stato conferito un mandato ad operare per il bene comune è istanza sempre più sentita e, in quanto tale, raccolta dal legislatore nazionale. Infatti, nel corso degli ultimi anni, sia pure in maniera non del tutto adeguata, ai cittadini è stata attribuita la possibilità di chiedere che il “potere” – comunque inteso – renda conto non solo di quanto è idoneo a influire su un interesse diretto, concreto e attuale di pertinenza del singolo individuo, ma anche di altri aspetti o atti rilevanti  per la collettività in generale.

Dunque, tornando al punto, la circostanza che non sia ancora possibile prendere visione di un testo di legge approvato da diversi giorni – nell’epoca in cui il web ha reso l’istantaneità dell’informazione un’esigenza per chiunque - lascia sinceramente perplessi. Al riguardo, può evidenziarsi che, per prassi, l’approvazione di decreti da parte del Governo è assistita, nei comunicati stampa o nelle dichiarazioni di accompagnamento, da una sorta di “caveat”, sintetizzato dall’espressione “salvo intese”. Con essa l’esecutivo si riserva di modificare l’articolato prima di sottoporlo al Parlamento. L’utilizzo della formula suddetta – che, peraltro, non sembra sia stata menzionata in dichiarazioni ufficiali né sul sito di Palazzo Chigi in relazione al testo in discorso - è volto al fine di evitare un’ulteriore riunione del Consiglio dei Ministri per una nuova approvazione del provvedimento già emanato, a seguito delle modifiche resesi necessarie in un secondo momento.

Si tratta di una prassi che lascia perplessi: già il termine “intese” suggerisce che in un decreto ufficialmente deliberato potranno essere apportate non solo correzioni formali, conseguenti a verifiche puntuali o ad aggiustamenti meramente “tecnici”, ma modifiche sostanziali del contenuto normativo. La formula citata, oltre a lasciare assolutamente indeterminati i soggetti fra i quali le intese suddette potrebbero intervenire, non chiarisce in particolare a chi sarebbe conferita la delega a effettuare la variazione del provvedimento deliberato. In mancanza di apposite garanzie procedurali volte a circoscrivere l’applicazione della prassi menzionata, il ricorso a un metodo improntato alla trasparenza avrebbe giovato, consentendo di disporre di tutele adeguate in ordine al procedimento seguito.

Se, infatti, con piena disclosure, il testo normativo fosse stato pubblicato nella versione approvata dal Consiglio dei Ministri del 18 aprile scorso, chiunque sarebbe stato in grado di conoscere le misure originariamente adottate nonché di verificare, a seguito delle “intese” fatte salve, chi su di esso avesse potuto avere un’incidenza determinante, tale cioè da variarlo, per quali cause e in quale senso. Ciò sarebbe risultato molto importante, ai fini della valutazione dell’azione del Governo e delle motivazioni che ne giustificano le scelte, ma soprattutto in ordine alla comprensione delle influenze che ne orientano l’esercizio del potere.

Invece, così non è stato: il testo del decreto è tutt’ora sconosciuto. Dunque, se pure è d’uso diffondere i provvedimenti con molti giorni di ritardo rispetto alla loro approvazione, la differenza è che in passato nessuno si era autoproclamato paladino della trasparenza per sconfiggere un’opacità funzionale a perverse logiche di potere. Dunque perché il decreto ormai approvato dal Consiglio dei Ministri, non è stato reso disponibile al pubblico seduta stante, non appena cioè il Premier lo ha spiegato con dovizia di particolari nell’apposita conferenza? Si è trattato di un disguido o di un ritardo dovuto alle vacanze pasquali?

Tra le varie domande, una in specie inquieta: ma di cosa si discetta da giorni, con fiumi di parole sui giornali, in rete e sui social, in mancanza di un testo scritto su cui ragionare con fondatezza? Rendere il contenuto del decreto fruibile a chiunque, con totale disclosure, sarebbe stato opportuno quanto meno al fine di discuterne concretamente, evitando al contempo sospetti e dubbi tra le pieghe delle norme. La trasparenza continua a essere assente, complicando ogni valutazione. Non basta una decina di tweet a rendere cristallino l’operato di Palazzo Chigi. Comunque la si pensi sulla sostanza del decreto, la forma che ne ha accompagnato l’emanazione è stata carente. Il metodo della disclosure è risultato ancora una volta disatteso.

E, senza disclosure, l’accountability cui tende una collettività che nei politici ha ormai scarsa fiducia è un miraggio: o un’incoerenza, se si preferisce. Così si chiude il cerchio, purtroppo.