Azzollini, Serracchiani e le manette. Chiedere scusa a chi?
Diritto e libertà
Era annunciato un ripensamento, dopo la libertà di coscienza accordata dal PD, ma era annunciatissimo lo scandalo che ne sarebbe derivato e i tentativi di parare il colpo dei vertici del Nazareno. Tuttavia, il voto di ieri sugli arresti domiciliari richiesti e negati per il senatore Azzollini e gli esiti dello scandalo per il prevedibile diniego hanno un'esemplarità paradigmatica, di cui anche i protagonisti - i senatori che hanno cavillato come al solito sul fumus persecutionis, questa volta schierandosi con il presunto perseguitato - sembrano volere eludere il significato più profondo e meno banalmente propagandistico.
La decisione di ieri è stata chiaramente politica, ma lo sarebbe stata, in uguale misura e per le stesse ragioni, anche quella contraria, perché questo - piaccia o meno - prevede l'articolo 68 della Costituzione, che riserva a deputati e senatori non una funzione para o super giurisdizionale, ma un potere sovrano rispetto alla libertà dei propri colleghi, a salvaguardia dei diritti e delle scelte di quanti li hanno eletti a rappresentanti del popolo.
Il tentativo di giustificare le decisioni delle Giunte delle immunità e poi delle aule di Camera e Senato sulla base di una dottrina doppiamente e contraddittoriamente garantistica - dell'autonomia della magistratura e dell'integrità dell'organo parlamentare - nasce proprio dal tentativo di normalizzare un istituto, quello costituzionale, che non nasce per ausilio e verifica del lavoro dei giudici, ma al contrario per "immunizzare" (almeno potenzialmente) il processo politico da ogni interferenza extra-politica, fosse pure quella non solo legittima, ma obbligata, dell'esercizio dell'azione penale.
Per i costituenti della Costituzione-più-bella-del-mondo, che subordinarono addirittura l'autorizzazione a procedere e non solo a "ammanettare" deputati e senatori al voto delle camere, prima che con Tangentopoli questa prerogativa fosse spazzata via a furor di popolo, il problema non era la disuguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, che la maggiore tutela degli eletti, sottratti al monopolio del giudice naturale, evidentemente istituiva. Il problema era al contrario quello della garanzia dell'equilibrio democratico, come risultante dal voto degli elettori, da ogni possibile turbamento "extra-democratico".
Di quanto oggi, in tempi di anti-politica coatta, suoni anacronistico o pretestuoso il fondamento onestamente patriottico dell'immunità parlamentare non è neppure il caso di discutere. Né hanno giovato alla difesa dell'immunità residua le peripezie di un ceto politico cosiddetto garantista (quello, in senso lato, berlusconiano), che ha finito per utilizzare non solo l'articolo 68 della Costituzione, ma l'intera legislazione penale in senso immunitario e rigorosamente auto-difensivo, mentre per il popolo delinquente comune assai poco garantisticamente dispensava dosi crescenti di galera, inventandosi un garantismo di classe uguale e contrario al giustizialismo di massa che l'avrebbe, a maggiore ragione, travolto.
Da questo punto di vista, oggi l'unico modo ragionevole (e tutt'altro che corrivo con la logica della giustizia all'ingrosso) per esercitare le prerogative previste dall'articolo 68 della Costituzione sarebbe da parte dei parlamentari quello di autorizzare, se richiesto dall'autorità giudiziaria, qualunque provvedimento limitativo della libertà di un proprio collega senza discutere, né sostenendo né eccependo, le sue ragioni e i suoi torti e tanto meno dei suoi accusatori e giudici. Sarebbe anch'essa, ovviamente, una scelta politica. Ma avrebbe il senso di lasciare all'esclusiva responsabilità dei giudici decisioni che non potrebbero comunque più di fatto essere bilanciate da alcuna concorrente responsabilità politico-istituzionale.
Del resto, una sovranità reale, per essere esercitata in modo motivato, deve essere libera e non condizionata, come di fatto è quando il suo esercizio contrario alle richieste dei giudici (visti anche i troppi poco commendevoli precedenti) qualifica di per sé la disobbedienza come un abuso, del quale occorre "scusarsi" con gli italiani, come ha detto la vice-segretaria del PD Serracchiani, giungendo al paradosso di considerare pm e gip i veri rappresentanti del popolo e i deputati e i senatori semplici ostacoli al pieno dispiegarsi delle manette, emblema della volontà popolare.