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(Public Policy / Strade) Negli ultimi giorni, il ministro Madia ha replicato a due articoli critici nei riguardi del cosiddetto FOIA italiano (Gilioli e De Bortoli). L’opinione del titolare del dicastero per la semplificazione e la pubblica amministrazione - riportata sul sito web istituzionale ed espressa da ultimo, in particolare, sul Corriere della Sera - è senz’altro condivisibile: la trasparenza non va intesa quale oggetto di meri adempimenti, bensì come valore che deve permeare i rapporti fra individui e istituzioni, al fine di “combattere la zona grigia che va dall’illecito allo spreco (…) consentendo alle persone di conoscere, con semplicità, dati, documenti e modalità di gestione delle risorse pubbliche”.

Tuttavia, proprio in forza di questo obiettivo – su cui concordano addetti ai lavori, cittadini attenti a scelte politiche incidenti sui loro interessi e quel giornalismo che non abdica al ruolo di watch-dog del potere - suscita perplessità l’affermazione di Madia, secondo la quale il dibattito non può limitarsi “a specifici aspetti normativi”, ma va invece spostato sul piano culturale. L’impostazione proposta dal ministro rischia, infatti, di distrarre l’attenzione dall’obiettivo positivo sopra indicato: non è sufficiente richiamare una generica istanza di trasparenza, declinata a livello culturale, se i risultati concreti cui è preposta restano difficili da conseguire, come i giornalisti richiamati (e altri) dimostrano con molti esempi.

Affinché possa essere effettivamente consentito, nella maniera più agevole e idonea, il “controllo sociale” sull’attività delle amministrazioni mediante strumenti giuridici adeguati, il dibattito non può che essere incentrato sui profili normativi riguardanti l’operatività degli strumenti stessi. In altri termini, se una vera trasparenza è unanimemente ritenuta mezzo essenziale al fine di verificare come la P.A. persegua la migliore efficienza nel rendere servizi alla cittadinanza utilizzando le risorse dei contribuenti, ogni riflessione deve necessariamente essere focalizzata sui meccanismi giuridici mediante i quali ciò viene realizzato, salvo rendere la disclosure amministrativa un mero slogan.

La proposta di Madia, volta a privilegiare l’aspetto culturale rispetto alle obiezioni in punto di diritto, non sembra inoltre orientata a favorire il contributo critico e costruttivo dei soggetti interessati all’elaborazione di una regolamentazione più efficace: ciò appare tanto più singolare in quanto proveniente dal ministro di un governo che vanta spesso il proprio “ascolto”. Inoltre, appare strumentale e, per molti versi, fuorviante l’assunto di Madia secondo cui un dibattito incentrato su specifici aspetti normativi rende la trasparenza “materia di contrapposizione tra una burocrazia che fa resistenza e un populismo che si alimenta nel coglierla in fallo”: questa sorta di svilimento delle opinioni giuridiche, anche su profili di dettaglio, in vista del miglioramento del decreto in tema di “diritto alla conoscenza”, non sembra il metodo più adeguato.

Il FOIA italiano potrebbe davvero rappresentare una “novità straordinaria”, come Madia l’ha qualificato, mediante il passaggio dal “need to know” al “right to know”. Infatti, esso intende sovvertire l’attuale impostazione normativa in tema di trasparenza, da un lato, riconoscendo al cittadino un vero e proprio diritto alla richiesta di atti inerenti alle pubbliche amministrazioni, a qualunque fine e senza necessità di motivazioni; dall’altro, aggiungendo alla preesistente disclosure di tipo “proattivo”, ossia ottenuta mediante la pubblicazione obbligatoria sui siti web di determinati enti dei dati e delle notizie indicati dalla legge, una trasparenza di tipo “reattivo”, cioè in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dagli interessati.

Tuttavia, perché possa compiersi il salto di qualità necessario, va valutata in punto di diritto – lo si ribadisce nuovamente - la concreta efficacia degli strumenti giuridici a tal fine elaborati: la realtà tende a non conformarsi spontaneamente ai “desiderata” del regolatore, ancorché sanciti sul sito istituzionale del relativo ministero. Si comprende il fastidio del titolare del dicastero per la spigolosità degli ingranaggi della normazione – manifestato nella sua esortazione a non concentrarsi “sulla meccanica della trasparenza” - specie in confronto al ben più ampio respiro di una “essenza” di tipo culturale: il ministro sa bene che la regolazione, come un motore, è “tutta una questione di pezzi, di parti, di componenti e di rapporti. (…) Tutto deve essere misurato e dimostrato. È opprimente, pesante. Di un grigiore senza fine” (R. M. Pirsig). Forse per questo “grigiore”, che evidentemente non le appartiene, Madia non si è soffermata su singoli profili del testo di legge, nelle repliche pubblicate, invitando invece a un dibattito più elevato.

I motivi in base ai quali si ritiene che il FOIA italiano non produrrà una reale disclosure sono stati più volte esposti, nonché puntualmente avvalorati dal Consiglio di Stato, non è dunque il caso di ribadirli nuovamente. Circa il regime delle eccezioni, unico profilo giuridico cui Madia accenna, può concordarsi con quanto da lei affermato. Limiti al “diritto di sapere” sono prescritti anche in altri ordinamenti, in maniera più rigorosa e restrittiva che nel testo del decreto in discorso: ma proprio questo fa sì che tali limiti non possano essere dilatati a dismisura, in modo da risultare discrezionalmente conformabili alle esigenze di chi non voglia fare trasparenza.

Il ministro cita la legislazione britannica che, tra gli altri casi, prevede l’esclusione dell’accesso riguardante “la formulazione o lo sviluppo delle politiche di governo”. Tra i vari esempi che potevano addursi, quello richiamato appare quanto meno peculiare: è noto che le politiche di organi di governo democratici, a qualunque livello, non sono sindacabili, quindi “sanzionabili”, se non in sede elettorale. Costituiscono, invece, oggetto di specifichi obblighi di trasparenza le motivazioni e gli effetti degli atti normativi attraverso i quali il governo attua le politiche stesse: in UK mediante Regulatory Impact Analysis e Post Implementation Review, vale a dire analisi e verifica d’impatto della regolamentazione (AIR e VIR), in Italia prescritte da anni, formalmente redatte, ma sostanzialmente molto carenti.

Mediante tali strumenti, i regolatori devono rendere conto alla collettività delle scelte operate tra le diverse opzioni esistenti, comprovandone ex ante gli impatti attesi e verificando ex post in quale misura essi si siano prodotti. A tale proposito, per inciso, sarebbe utile che il ministro rendesse facilmente reperibile agli interessati la relazione AIR predisposta per il decreto c.d. trasparenza. Circa il merito dei limiti all’accesso stabiliti nel FOIA nazionale, quanto osservato dal Consiglio di Stato definisce esaustivamente la questione: “le numerose e non sempre puntuali eccezioni previste, a tutela di interessi pubblici e privati, all’obbligo di disclosure (…) possono ragionevolmente aumentare le perplessità circa la concreta efficacia del provvedimento in esame. In mancanza di criteri più dettagliati per la valutazione del pregiudizio che la pubblicazione potrebbe arrecare agli interessi tutelati, le amministrazioni, infatti, potrebbero essere indotte ad utilizzare la propria discrezionalità nella maniera più ampia, al fine di estendere gli ambiti non aperti alla trasparenza, e sicuramente la genericità di alcune previsioni, pur riferite a tematiche “sensibili” (…) potrebbe essere motivo dell’insorgenza di ulteriore contenzioso”.

Infine, chissà se Madia, quando fa riferimento ad “aspetti che possono essere perfezionati a patto di trovare il miglior punto di equilibrio possibile”, riconosce che un alto grado di trasparenza, basato su “quantità e qualità dell’informazione prodotta dal governo e su una verifica indipendente di tale informazione” può ”fornire le basi per un dibattito di policy bene informato, alzando in tal modo i costi reputazionali per il governo che dovesse deviare dai propri obiettivi”. Se un quotidiano non è forse sede deputata a un dibattito giuridico approfondito, non può tuttavia ritenersi sufficiente che il titolare di un dicastero, una volta deciso di replicare alle critiche avanzate da noti giornalisti (e molti altri), fornisca riscontro a obiezioni specifiche in punto di diritto mediante affermazioni generiche che non contengono risposte. Ci si sarebbe aspettati che il ministro facesse quanto meno adeguata disclosure sulle reali motivazioni sottostanti alle proprie scelte di regolazione. Se non in occasione di un testo normativo in materia di trasparenza, quando?

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