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C’è molto di vero nella “fenomenologia delle primarie” offerta da Carmelo Palma, che descrive lucidamente la “disponibilità anche spregiudicata a ogni sorta di ribaltamento e di avanti-indrè ideologico, in nome della salvezza della propria comunità”. Si possono però dipanare considerazioni parallele che portano a conclusioni diverse dalla mera critica al “ritorno della ditta” che sarebbe incarnato da Zingaretti. E che consentono di riflettere su altre illusioni e mancanze del centrosinistra italiano.

Con un’affluenza così alta e un’altrettanto significativa percentuale di consensi, le ultime primarie tracciano nettamente la fine della leadership renziana. “Da Blair a Corbyn” sembra essere il ritornello dei commenti di molti amici liberal: troppo generoso con Renzi (per motivi su cui non mi soffermerò) e troppo ingeneroso con Zingaretti. Ritengo che di quest’ultimo si sia enfatizzato eccessivamente il suo “essere di sinistra”, sia pure alla luce di vere sparate contro il CETA o la “subalternità al capitalismo”. Spesso ci si dimentica però che i tanto lodati Verdi tedeschi, e perfino i D66, hanno avuto posizioni analoghe, per non parlare degli altri partiti europei iscritti al PSE (dove il PD fu peraltro portato da Renzi).

Il Presidente della Regione Lazio rivendica giustamente la sua capacità di aver raccolto centinaia di migliaia di voti che a livello nazionale si erano rivolti ad altri; riesce a incassare il consenso dei “moderati” del partito non solo per il trasformismo autoconservativo della dirigenza PD, ma anche per una scaltra capacità nel muoversi senza attirare antipatie (qualità non certo attribuibile ai suoi sfidanti). Questo fin dalla manifestazione in Piazza del Popolo del 30 settembre dove evitò attacchi diretti ai predecessori e parlò di Stati Uniti d’Europa (anche in questo il parallelo con Corbyn appare improprio).

Soprattutto, la vittoria di Nicola Zingaretti comporta la fine di un modello di PD utopistico: il “Partito della Nazione” di Renzi, antesignano del “Fronte repubblicano” propugnato oggi da Calenda. L’ambizione e la pretesa di costituire il grande rassemblement di tutti i ragionevoli. All’Italia servirebbe molto di più un sano, coerente partito socialdemocratico piuttosto che un grande contenitore figlio di un bipolarismo mai maturato (e certamente passato) che inevitabilmente finisce per essere tutto e niente. O meglio: nel 2014 tutto, dal 2016 in poi niente.

Il PD del lingotto inventò il bipartitismo in Italia e fu rincorso da Berlusconi con il Popolo della Libertà, annunciato dal celebre predellino. È obiettivo che questa nuova forma più stretta di bipolarismo fu un esperimento che non conobbe mai una piena maturazione; le ragioni di questa mancanza sono però più soggettive. Chi scrive ritiene che all’Italia sia molto più adatto un sistema proporzionale e frammentato: in un Paese che è un grande suq latino in cui tutto si media, si tratta e si compone, il bipolarismo arrivò come una mannaia, costringendo a schierarsi lungo la faglia del berlusconismo-antiberlusconismo, con una nettezza per la quale non eravamo culturalmente preparati e democraticamente maturi. Dalla Seconda Repubblica è stato estratto il suo peggio, che finì peraltro per riversarsi presto nella nuova ondata dei 5 stelle, ispirata dal giustizialismo della sinistra e nutrito dalla cultura anti-sistema della destra.

La prospettiva di riunire oggi tutte le forze “di sistema” sopra un unico carro rischierebbe di trasformarlo in un facile “bersaglio unico” per i populisti. Grazie alla vittoria di Zingaretti c’è invece la possibilità di allargare lo spettro creando due diverse alternative alla maggioranza attuale o alla versione di destra che forse ci aspetta: una socialdemocratica e una liberaldemocratica. Diversificare le fiches della “ragione” sembra oggi la strategia migliore per vincere la scommessa contro i populismi. Se ci fosse anche un partito popolare emancipato da Salvini torneremmo quasi ad essere un paese europeo.

Senz’altro complici la pavidità e il senso di disciplina ecclesiastico degli altri potenziali leader, ma alla fine i simpatizzanti del PD hanno optato per l’unica scelta credibile: difficile pensare che Roberto Giachetti fosse adatto al ruolo di risanatore di un PD a pezzi, così come il “già sperimentato” Maurizio Martina. A Nicola Zingaretti spetterà nella prossima stagione un compito difficile e dal grande potenziale. Come liberaldemocratici, con idee diverse dalle sue, gli mandiamo i migliori auguri di buon lavoro.