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Il risultato delle primarie milanesi, visto da Milano, può essere legittimamente venduto come una prova di vitalità e maturità democratica. Il PD, a differenza di quanto avvenne lo scorso anno in Liguria, grazie alle primarie non si sfascia, ma impacchetta in un offerta e in un'immagine plurale una coalizione composita che, con un uomo diverso da Pisapia, si candida a proseguire l'esperienza del sindaco arancione.

Sala ha vinto con numeri che non ne possono fare il padrone, ma solo il regista della compagnia. Balzani e Majorino e lo stesso sindaco uscente (da molti punti di vista, l'unico vero sconfitto dal voto di ieri) rimarranno indispensabili azionisti della sinistra milanese, che proverà, per la seconda volta consecutiva, a battere il centro destra forza-leghista nella sua città di elezione, facendo appello ad un mix di intransigenza e di radicalità per certi versi originale, ma tutt'altro che nuovo, nei contenuti, come nelle forme. Insomma: tutto è rimasto, più o meno, come era cinque anni fa, quando la sfida nazionale di Renzi neppure si profilava all'orizzonte e il rinnovamento della sinistra italiana, proprio a partire dal laboratorio milanese, sembrava procedere lungo linee opposte a quelle di ispirazione blairiana.

Il risultato di ieri, visto da Roma (cioè dal Nazareno), offre perciò segnali diversi e meno incoraggianti. La sinistra che esce dalle primarie somiglia poco a quella che Renzi immagina e più a quella che vorrebbe lasciarsi alle spalle. In primo luogo, è ben più ampia e frastagliata di quella contenibile dentro il solo PD. È una sinistra che fatica anche a stare tutta dentro la stessa coalizione, e che non si accaserà mai dentro lo stesso partito (renziano), come esigerebbe l'Italicum. In secondo luogo, è una sinistra tutt'altro che persuasa delle riforme cui l'esecutivo ha più legato il suo nome - su tutte, il Jobs Act e il ddl di revisione costituzionale - e diffidente delle intemperanze "trans-ideologiche" del premier. In terzo luogo, visto l'imprevedibile disarmo del M5S a Milano, è una compagine ancora tenuta insieme, prima di tutto, dalla fedeltà alla causa antiberlusconiana, tema che non sta al centro delle preoccupazioni di Renzi, né delle sfida elettorale decisiva per la sua carriera politica, cioè il referendum confermativo del prossimo autunno.

La diffusa ostilità al cosiddetto Partito della Nazione, che Renzi oggi paragona a un fantasma inventato dai suoi avversari interni per screditarlo, non deriva solo da un pregiudizio etnico, cioè dalla diffusa riluttanza a imbarcare nel PD iscritti e perfino elettori antropologicamente diversi, come direbbe Gotor, o politicamente compromessi con la stagione berlusconiana. Nasce innanzitutto dal rifiuto della sinistra-sinistra a sciogliersi in un contenitore che avverte indistinto, estraneo ai suoi valori tradizionali (cui anche Sala ha dovuto rendere un deferente omaggio, per uscire politicamente vivo dalla sfida delle primarie) e politicamente colonizzato dalla "cultura di destra". Anche questo ha dimostrato il voto di ieri.

Né a Milano, né nelle altre città in cui tra pochi mesi si voterà Renzi vedrà in campo un partito a immagine e somiglianza di quello con cui, nel 2017 o nel 2018, dovrebbe ricandidarsi alla guida del Paese. Il candidato di Renzi correrà per Palazzo Civico, ma il renzismo per il momento è ancora fermo a Palazzo Chigi.

@carmelopalma