La popolazione del pianeta è ormai per oltre la metà urbana. E’ stato calcolato che il 40% della crescita globale dei prossimi 15 anni verrà da 400 città di dimensioni medio-grandi al momento quasi sconosciute. Per questo sulla scelta del modello di sviluppo delle città si gioca una parte importante del nostro futuro.

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Le città erano il tema dell’Expo di Shanghai del 2010, che in un padiglione rappresentava  la vita urbana come un tetto che non rovinava sui visitatori perché sorretto da due colonne di volumi. Le città nella loro forma, così come gli elementi fondanti che ne costituiscono lo scheletro, sono  a tutti gli effetti il filo rosso che lega i paesi. Una sorta di tessuto connettivo, in non pochi casi logorato da politiche urbanistiche ma anche ambientali e culturali inadeguate.

Fino al 28 febbraio del 2014 in Cina si svolge la Biennale di architettura ed urbanistica. Sede dell’importante manifestazione è Shenzhen, la megalopoli cresciuta dal nulla, passata da 30mila a 13 milioni di abitanti in meno di 40 anni. Esempio di come la pianificazione senza un’architettura di qualità possa produrre soltanto un risultato parzialmente positivo. Tra Shanghai e Shenzhen, in fondo, si possono rintracciare gli esiti di due opposte concezioni della città. Di due fotografie del presente, ma anche di due visioni sul futuro.

E’ innegabile come le città abbiano quasi ovunque soppiantato il territorio circostante. Come l’urbanizzazione abbia progressivamente esteso i suoi confini spaziali fagocitando parti di campagna. Come lo spazio costruito abbia sostanzialmente accresciuto il suo appeal, a dispetto di evidenti contrarietà, ma facendo leva, generalmente, sulle maggiori possibilità offerte. Almeno potenzialmente. Così la tendenza generale ha visto la crescita della gran parte dei centri urbani, in uno sviluppo quasi sempre disarticolato della loro forma. Proprio in coincidenza con questo fenomeno se ne è verificato un altro, quello per così dire di selezione. Per cui alcuni centri, soprattutto di piccole dimensioni, incapaci di crescere, hanno mantenuto le proprie caratteristiche, ma hanno visto assottigliarsi il numero dei loro abitanti. A volte, come accaduto per un numero di borghi generalmente posti in aree interne, fino a spopolarsi del tutto.  

Insomma la città sembra sempre più destinata ad essere l’indiscussa protagonista delle nostre storie, nel prossimo futuro. Il fulcro della gran parte delle attività umane e nel contempo quasi il terminale di ogni progetto. Non diversamente dagli inizi, dalle “prime” città. Da Gerico e Ur, Ugarit, Mersinia, Menfi, Harappa e Mohenyo-Daro, progenitori di Atene, vera e propria città-icona.

Qualcuno addirittura teorizza che saranno le megalopoli a dominare il mondo. Perché lì si concentrano talenti e contrasti, la loro rete sovrasta addirittura le nazioni. Una sorta di città-Stato. La società di consulenza A. T. Kearney ha creato, insieme al Chicago Council of Global Affairs e alla rivista “Foreign Policy”, una classifica delle 65 città che possono già fregiarsi di questo status. Ai primi cinque posti, New York, Londra, Tokyo, Parigi e Hong Kong. Le uniche italiane, ben distanti dalla cima della classifica, Roma e Milano. Nei prossimi decenni se ne aggiungeranno delle altre.

La popolazione del pianeta è ormai per ben oltre la metà urbana e nel 2015 lo sarà per il 60%. La differenza la farà la capacità di attrarre competenze, scienza, cultura e denaro. E’ stato calcolato che il 40% della crescita globale dei prossimi 15 anni verrà da 400 città di dimensioni medio-grandi al momento quasi sconosciute. Tra le quali figureranno le cinque città a crescita maggiore come Beihai in Cina, Graziabad in India, Sana’a nello Yemen, Surat in India e Kabul in Afghanistan. Metropoli globali, in competizione tra loro, attente alla qualità della vita e all’hi-tech.  Fondate  sul concetto lanciato ad inizio secolo da Richard Florida delle “Tre T”, ovvero Tecnologia, Talento e Tolleranza, che una città deve far proprie nella fase della globalizzazione. Ne “Il trionfo della città”, pubblicato nel 2011 negli Usa, l’economista di Harvard, Edward Glaeser, sostiene che “le città esaltano le forze dell’umanità”. Tesi che compare esplicitata fin dal sottotitolo, “come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi, più smart, più verdi, più sani e più felici”. Tesi che ad osservare gli slums di Munbai e il quartiere Cazenga di Luanda sembra molto più di un’utopia. Distese di abitazioni “provvisorie”, prive di qualsiasi servizio, e per le quali è difficile immaginare un futuro meno caotico. Realtà distanti dal contesto italiano, nel quale il dominio dei centri urbani ha in non pochi casi comportato l’abbandono delle campagne e  di alcuni piccoli e molto piccoli centri di riferimento.

Le città italiane sono generalmente cresciute seguendo quasi ovunque il modello dell’aggiunta di nuove parti. Realizzate perlopiù nelle ex aree di cintura, lì dove risultava più facile ed economicamente vantaggioso edificare. Su quelle aree di espansione nelle quali la qualità architettonica sembra essere poco più di un optional, le amministrazioni locali hanno puntato forte. Senza peraltro prevedere alcuna alternativa. Nuovi cantieri in zone nelle quali la città non c’era mai stata, l’orgoglio di tanti sindaci. Noncuranti del fatto che i nuovi agglomerati frequentemente nascevano, e disgraziatamente in non pochi casi rimanevano, senza servizi. Senza alcuna connessione con la città esistente. In quelle aggiunte scriteriate, nelle quali le tecnologie invocate dalle smart cities sono assenti, si è in molti casi condannato i suoi abitanti ad una sorta di esilio inconsapevole.

Dentro il recinto del nuovo quartiere, ma sostanzialmente fuori dalla città. A Roma, Milano, Napoli, Genova e Palermo. Ma anche Barletta, Acireale, Messina, Velletri, come Monterosso nello spezzino e Longiano nel forlivese. Il ricorso massiccio e “aprioristico” a questo modello naturale dell’espansione esterna ha comportato molti mutamenti. Partendo da quello del paesaggio come evidente. Ma anche come sottolineano con forza i tanti movimenti, da Italia Nostra a Legambiente fino a Salviamo il Paesaggio, oltre a quelli di carattere più locale, che cercano di contrastare questi fenomeni. Interi pezzi d’Italia per i quali la cancellazione dei caratteri naturali e in alcuni casi di straordinarie testimonianze archeologiche, ha comportato la omologazione ad altri. La necessità di riequilibrare i tanti squilibri che si sono sedimentati ha, almeno nell’ultimo anno, prodotto a livello nazionale alcuni tentativi di arrestare il consumo di suolo. L’esito, il recente ddl approvato dal Consiglio dei Ministri su proposta dei Ministri delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Nunzia De Girolamo, per i Beni e le Attività Culturali e Turismo, Massimo Bray, dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Andrea Orlando, e delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi.

Ma aldilà dell’ambito più vasto, le singole città, così come gli agglomerati urbani di dimensioni più ridotte hanno il dovere di ripensare al loro sviluppo. Muovendosi nell’ambito dei PRG vigenti, dove possibile scegliere se continuare l’avanzata verso la campagna oppure recuperare quel che rimane inutilizzato al loro interno. E’ più che evidente che in ogni caso non sarà facile. Perché annettere nuove parti di territorio per farne città, costringerà a rinunciare ad aree tradizionalmente a verde, dilatando ulteriormente le distanze tra centro e periferie. Prevedibilmente accrescendo, specialmente per i centri più grandi, i problemi legati alla mobilità. L’elemento positivo, la certezza di poter riutilizzare gli spazi in abbandono esistenti al suo interno, per arricchire la dotazione di servizi. Ma allo stesso tempo, decidere di procedere ad una densificazione comporterà non soltanto l’ottimizzazione degli spazi ma anche il più che probabile sacrificio di parti che altrimenti si sarebbero potute destinare al tempo libero. Il vantaggio, quello di delimitare all’esterno la città, racchiuderla all’interno di nuove mura immateriali.

Il modello prescelto è molto più che un semplice, vago, indirizzo. Perché sulla sua realizzazione saranno evidentemente incardinate non solo le politiche urbanistiche, ma almeno quelle ambientali e culturali. In qualsiasi contesto ci si troverà ad agire le tecnologie dovranno essere parte essenziale. Perché possono favorire la transumanza dei turisti, la mobilità, arricchire gli strumenti didattici e colmare le distanze attraverso i social media. La ricerca di una organizzazione quanto più perfetta possibile, continua. Ma accanto a questo servirà anche qualcos’altro. Altrimenti, il rischio è quello di costruire città prive di una propria anima.

Se dietro e dentro la tecnologia non ci sono contenuti le città rischiano di rimanere muti aggregati dell’umano sfinimento.Il geografo greco Pausania in un celebre passo, di fronte alla pretesa degli abitanti  di un piccolo centro della Focide di considerarsi abitanti di una città, ironizza affermando che non può considerarsi città un abitato nel quale manchino l’agorà, il teatro, e gli edifici politici. Ora sappiamo che a fare una città non possono essere soltanto alcuni spazi, la loro organizzazione. Servono anche cultura e progetti di condivisione. Elementi che l’Italia possiede, anche se spesso colpevolmente non utilizza.