Arte e cemento armato: si può fare
Terza pagina
“Proverò a coniugare l’arte con il cemento armato”. Ad affermarlo il neo Viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini, leader del Psi, un po’ deluso dal fatto di non essere riuscito ad arrivare al Ministero dei Beni Culturali.
Una dichiarazione dimenticata subito dopo che le agenzie l’avevano riportata, forse perché non è sembrata di alcun rilievo, per molti, o probabilmente perché l’“Arte” nelle questioni nazionali ha da tempo poco spazio. Il riferimento al “cemento armato” ha una sua nobiltà, un suo richiamo a storiche realizzazioni, che in molti non avranno colto. Parlare di cemento tout court avrebbe di certo avuto un impatto più immediato. Avrebbe evocato, nella moltitudine dei lettori, le costruzioni di varia tipologia che riempiono i diversi quartieri di tante città italiane. Le nuove e meno nuove cubature che “densificano” i nostri spazi quotidiani, definendo luoghi.
Quella frase di Nencini, a ben guardare, nasconde un proposito tutt’altro che trascurabile, un vero e proprio programma. Un progetto davvero ambizioso, perché lungimirante. Anche se è possibile che lo stesso sottosegretario non se ne sia accorto, è significativo che la questione della liaison tra arte e cemento torni a essere riproposta. Quanto la politica sia davvero sensibile a questo argomento lo dimostra, forse meglio di altro, la serie quasi interminabile di eccezioni mosse dalle Regioni al vecchio ddl Catania sul consumo di suolo. Perché aldilà delle dichiarazioni d’intenti e dei nobili auspici, nella realtà dei fatti, le storie del Piano Casa, nelle sue evoluzioni regione per regione, certificano quanto continuino a contare le nuove cubature.
Quanto gli indirizzi urbanistici di territori e città siano orientati molto spesso da interessi particolari. La storia di non pochi Piani di assetto territoriale, come di molti Piani paesaggistici segnala l’incidenza nelle scelte finali, dell’edilizia e dei suoi padroni. Dunque pensare ad una sorta di patto tra Patrimonio Artistico-archeologico e Territorio, tra costruito e inedificato, è una buona idea. Non certo nuova, ma senz'altro buona. Certo, sarebbe necessario che la politica, a partire dagli amministratori locali, si consegnasse davvero agli architetti, dopo aver condiviso con essi una visione delle città e dei territori, nella quale i singoli progetti non fossero realizzazioni ad effetto.
Non è tempo per operazioni urbanistiche presentate come “di rigenerazione”, nell’ottica dell’incremento dei servizi. Ma nella realtà dei fatti, ancora edilizia residenziale, con parti a valenza commerciale. Il riutilizzo dei tanti spazi in abbandono, quasi ovunque, ha una sua riconosciuta rilevanza se interpretata senza sotterfugi ed espedienti. Le Caserme a Roma, come gli spazi industriali in abbandono nell’hinterland milanese, non diversamente dai capannoni di ampie porzioni dell’Emilia e delle province meridionali delle Marche sono ancora occasioni. Ma soltanto se le diverse operazioni saranno guidate da “buone intenzioni”. Soltanto se l’urbanistica finirà di essere un bancomat ed i territori meri spazi a disposizione.
Eccola la scommessa. Politica, certo. Ma anche economica. Puntare sulla cultura dell’esistente, recuperandolo e valorizzandolo. Dagli edifici cadenti, alle ferrovie dismesse, ai borghi abbandonati. Ricostruendo legami tra parti vicine ma da tempo estranee. Definendo confini che piuttosto che limiti possano trasformarsi in spazi di nuova elaborazione. La storia nuova d’Italia si può costruire alternando “chiusure” ed “aperture”. Recuperando quella complementarietà tra le parti che si è da tempo persa. “La cultura di un periodo si costruisce con l’arte, non meno che con il pensiero scientifico, filosofico, politico, religioso”, scriveva uno dei maestri della storia dell’arte e sindaco di Roma alla fine degli anni Settanta. Dopo molti disastri e tanti errori abbiamo capito che, forse, aveva ragione. Per ricostruire il Paese servono più Arte e meno cemento armato. Insieme.