Ha senso fare in due mosse quello che si sarebbe potuto fare in una soltanto? Ha senso riorganizzare, in via provvisoria, un ente che dovrà essere soppresso entro un anno o poco più? La fretta di anticipare il più possibile il contenuto della riforma del titolo V della Costituzione ha prodotto un coacervo di norme che complica le cose, invece di semplificarle. Il tempo delle riforme "a singhiozzo" non è ancora terminato.

boggero - Copia

Si ripete spesso che bisogna razionalizzare e semplificare “il sistema”. Di razionalizzazioni e semplificazioni sono impregnati i discorsi di deputati e ministri di ogni colore politico. La semplificazione è stata addirittura oggetto del lavoro di un'apposita commissione parlamentare nella scorsa legislatura che, nell'ateneo presso il quale svolgo attività di ricerca, ha poi fornito l'occasione per ampie riflessioni accademiche. Anche la riforma degli enti locali, nota al grande pubblico come ddl Delrio, avrebbe dovuto essere improntata a criteri di razionalizzazione e semplificazione del governo territoriale.

In realtà, come ha già parzialmente notato Tito Boeri su lavoce.info, si tratta di un coacervo di norme che non aiuta a risolvere i due principali problemi delle autonomie, da un lato l'intreccio delle funzioni e la moltiplicazione degli enti, dall'altro la miriade di vincoli di finanza pubblica stabiliti dal patto di stabilità interno. Il disegno di legge Delrio si inserisce, infatti, nella logica delle cosiddette riforme “a singhiozzo” che hanno caratterizzato la prassi degli ultimi decenni.

Preso atto che le Province possono essere eliminate o svuotate delle loro competenze soltanto con revisione costituzionale (ma c'è persino chi sostiene che l'art. 5 della Costituzione le protegga anche da una revisione costituzionale ex art. 138 Cost.), il legislatore ha optato per una disciplina transitoria sul modello di quella già sperimentata da Monti e poi bocciata dalla Corte costituzionale per vizi formali derivanti dall'insussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza per l'emanazione del decreto-legge. In attesa della riforma costituzionale che abolirà le Province e modificherà il Titolo V, quindi, il legislatore, anziché mantenerne intatta la fisionomia attuale, riorganizza l'ordinamento provinciale. L'obiettivo è anticipare il più possibile il contenuto della riforma costituzionale, incominciando a trasferire ad altri enti le funzioni fino a oggi provinciali e a eliminare gli organi di governo ad elezione diretta.

La riorganizzazione di Delrio, tuttavia, non affronta il problema del riordino delle funzioni della Provincia, confermando quelle fondamentali già attribuite da Monti, ma, da un lato, rinvia ad un nuovo atto il trasferimento delle funzioni rimaste “abbandonate” e, dall'altro, rinvia al futuro la questione su chi subentrerà nell'esercizio delle funzioni attualmente svolte dalle Province una volta eliminate queste ultime. In parte, ma non è ancora chiaro in che misura, alcune funzioni potranno essere attribuite alle Città metropolitane.

Assai complesso e passibile di non dare adeguata rappresentanza ai territori periferici è poi il sistema per l'elezione indiretta dei consigli provinciali e dei consigli metropolitani. I Comuni saranno chiamati a farsi carico del funzionamento di Province e Città metropolitane, in particolar modo della loro elezione, senza che tuttavia sia stato previsto un meccanismo flessibile che consenta loro di delegare funzioni alle Province. In buona sostanza, le Province sono enti esponenziali dei Comuni, ma svolgono funzioni decise sulla base di leggi regionali o statali. A questo proposito, non è chiarito nemmeno il rapporto tra Province e Unioni di Comuni, enti che si ritroveranno a dover svolgere funzioni quasi identiche (gestione dei servizi sovra-comunali).

Nel caso delle Città metropolitane le cose vanno leggermente meglio, visto che il legislatore cerca di esaltare quanto più possibile l'autonomia statutaria, consentendo una maggiore flessibilità nel trasferimento di funzioni tra centro e periferia. Contestabile appare invece la decisione di privare anche di una pur minima indennità gli amministratori locali, in particolar modo se provenienti dai piccoli Comuni, eletti in Provincia. Per la Città metropolitana, invece, il legislatore fa salva la possibilità che lo Statuto preveda un'indennità, oltre che l'elezione diretta degli organi. Difficoltà per la governance territoriale potrebbe prodursi anche dalla sostituzione della giunta con un terzo organo avente natura non esecutiva, l'assemblea dei sindaci per le Province e la conferenza metropolitana per la Città metropolitana, che sembra vagamente imitare il modello assembleare in uso in Germania presso enti di area vasta sui generis come quelli di Aquisgrana, Hannover e Saarbrücken. Un  modello che però non prevede l'elezione integralmente indiretta degli organi di governo.

Infine, il legislatore non ha proposto un riordino complessivo della geografia provinciale, sul modello inaugurato dal Governo Monti e poi bloccato dalla Corte costituzionale per i motivi sopra ricordati. Persino l'Unione delle Province italiane (UPI), per bocca del suo Presidente, Antonio Saitta, sostiene ancora oggi di essere favorevole alle fusioni tra Province. A questo proposito, tuttavia, sembra logico obiettare che l'accorpamento ope legis, oltre a sollevare qualche profilo di incostituzionalità, sarebbe apparso contraddittorio rispetto al fine di completa abolizione dell'ente. Se si abolisce, non occorre prima accorpare, pena la violazione del principio di semplificazione. Piuttosto il riordino potrebbe essere utilizzato ora dalle Province come strumento di compromesso politico nel negoziato con il Governo. Per la serie: “noi ci accorpiamo, ma voi non ci sopprimete”.  

Per quanto riguarda le Città metropolitane, pesa l'incertezza derivante dall'inesistenza di criteri  per porre un limite alla loro esponenziale proliferazione. Una riforma costituzionale che avesse fissato in Costituzione il loro numero, avrebbe evitato alla radice che potesse ripetersi il fenomeno verificatosi per le Province negli ultimi trent'anni. Toccherà quindi al legislatore mostrare giudizio e astenersi dal creare nuove discutibili Città metropolitane. La soppressione del comma che autorizzava la creazione di nuove Città metropolitane in presenza di alcuni requisiti va comunque nella direzione di considerare chiuso il numero delle Città metropolitane elencate dal ddl. Al pari delle Province, le Città metropolitane saranno enti di area vasta, che però dovranno risolvere problemi particolari derivanti dalla presenza di più o meno grandi conurbazioni urbane.

Dal novero delle funzioni fondamentali individuate dal ddl Delrio e diversamente da quanto sostenuto da Boeri, la Città metropolitana è destinata ad assumere un numero di competenze maggiori rispetto alla Provincia di oggi (si pensi, in particolare, alla viabilità che, da comunale, diventa funzione fondamentale della Città metropolitana). E' possibile inoltre che la legge regionale e, più limitatamente, lo statuto contribuiscano a differenziare ulteriormente la disciplina. Qualche problema è posto dalla questione dei confini territoriali della nuova Città metropolitana, i quali dovrebbero di norma coincidere con quelli dell'attuale Provincia. Contrariamente a quanto previsto nella bozza originaria del ddl, i Comuni appartenenti alla Provincia non potranno più decidere di non aderire alla Città metropolitana (opting out), mentre i Comuni appartenenti alle Province limitrofe potranno scegliere di aderirvi (opting in). In ogni caso, sembra da considerare implicitamente salvo il potere dei Comuni di non aderire alla Città metropolitana e di richiedere l'adesione ad un'altra Provincia della stessa Regione o di un'altra Regione, pena la violazione di norme costituzionali (artt. 132 e 133).

In generale, si può sostenere che una riforma simile avrebbe richiesto di essere approvata contestualmente ad una legge di revisione costituzionale del cd. Titolo V. Non è altrimenti giustificabile sotto il profilo della razionalizzazione e semplificazione del sistema delle autonomie locali che si proceda alla riorganizzazione temporanea di un ente, la Provincia, che sarà abolita entro un anno o poco più. Tale riorganizzazione, infatti, mette in movimento l'intera macchina statale, la quale sarà nuovamente sollecitata ad una riorganizzazione dopo l'entrata in vigore della riforma costituzionale. Fare in due mosse ciò che può essere fatto in una contraddice ogni elementare principio di semplificazione. Il tempo delle riforme ben concepite sembra insomma ancora lontano.