Argomentare costa. L'affermazione è di tutta evidenza, laddove si consideri il "verso" intrapreso dalla politica e dal giornalismo al contempo: se la spending review stenta a essere attuata, il risparmio più rigoroso di motivazioni adeguate a supporto delle parole, opere e anche omissioni profuse è, invece, perseguito nella maniera più convinta

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Le cause sono le più varie. In particolare, con vigore sempre maggiore è progressivamente invalso il convincimento che, qualsivoglia sia l'ambito considerato, la comunicazione rappresenti il valore più importante, per taluno esaustivo a ogni effetto. L'equivoco colossale è stato quello di ritenere che per instaurare un contatto con ogni singolo cittadino – potenziale elettorato o pubblico dei lettori – occorresse omologare la comunicazione stessa al livello più basso, quello in cui si posiziona chi reputa faticoso comprendere anche solo poco più di uno slogan, figurarsi argomentazioni articolate, volte a conferire sostanza a discorsi altrimenti inconsistenti.

Le opinioni, soprattutto se dimostrate con ragionamenti costruttivi, non sono più di moda. Tra i governanti come sui giornali, è il coinvolgimento emozionale ciò che affascina la gente: dunque, non potendosi contare sulle capacità raziocinanti del "pubblico", lo scopo prefissato è esclusivamente quello di mostrarsi a essa quanto più accattivanti.

È un'epoca, la nostra, in cui a chiunque serve procurarsi i più ampi consensi; per molti è addirittura una questione di sopravvivenza, che ha innestato una sorta di competizione al ribasso nella qualità del "prodotto" offerto, con buona pace di senso critico e costruttivo confronto, ma soprattutto di uno studio idoneo posto a fondamento di qualunque giudizio formulato. Le democrazie più avanzate si qualificano come tali per le opposizioni efficaci e per il controllo del potere svolto da watch-dog vari e, comunque, preparati: in Italia, a svolgere questo ruolo "ingrato" sono rimasti in pochi, forse solamente quelli per cui il tornaconto derivante dal conformarsi alla tendenza prevalente è per lo più assente e dunque non temono di esprimere giudizi indipendenti.

Talora accade che qualcuno si proponga quale "voce" autonoma rispetto a qualsivoglia schieramento o appartenenza - politica o editoriale - in qualche modo super partes rispetto alle critiche che rivolge a questo o quel personaggio. Tuttavia, il più delle volte e solo successivamente, emerge che si tratta della voce di chi è stato escluso dal "carro" di colui sul quale aveva puntato e che quell'apparente indipendenza, sfoggiata ad arte, serve solo a dissimulare una sorta di vendetta personale: in tal caso, soprattutto, le argomentazioni che sorreggono le critiche svolte sono pressoché inesistenti, considerata la circostanza che l'interesse perseguito non è quello di dimostrare ciò che si sta affermando. Solo questo è da stigmatizzare, per il resto tutto è ammesso, compreso il risentimento, com'è ovvio.

La mancanza di solide basi a sostegno dei discorsi svolti produce una conseguenza ulteriore: non solo le idee proclamate con convinzione in precedenza vengono inopinatamente cambiate con ostentata disinvoltura e nonchalance esibita, ma neanche si reputa doveroso fornire una qualche evidenza di tale mutamento, affinché la credibilità eventualmente acquisita in precedenza non ne risulti minata. L'accountability è chiaramente un concetto che ai più sfugge, sul palcoscenico politico e giornalistico nazionale.

È certamente facile sottintendere che il cambio di rotta sia avvenuto perché le proprie aspettative sono state deluse da questo o quell'esponente del governo, dal politico in cui si erano riposte le proprie speranze, dal provvedimento che non incide nel modo gusto sulla realtà esistente. Molto più difficile è, invece, ammettere - pubblicamente soprattutto - di non aver saputo o voluto valutare, di non aver riconosciuto per tempo che i segnali che quanto verificatosi successivamente sussistevano già in precedenza, ma si è preferito ignorarli, per superficialità o, forse, per convenienza. Non è, tuttavia, il perseguimento di un personale vantaggio, nell'indirizzare la politica così come il sentire della gente, che sta contribuendo al declino del Paese, bensì la circostanza che di ciò non sembri esservi la benché minima consapevolezza. Il fatto che la collettività non pretenda alcuna comprova, mediante numeri, dati ed elementi, di quanto affermato da soggetti di pubblica rilevanza, politici o giornalisti, ne è la dimostrazione più esaustiva.

L'assenza di motivazioni fondate induce, altresì, a ricorrere ai mezzi più disparati pur di farsi notare nella massa indistinta di chi sui media, a ogni titolo, discetta di qualsivoglia oggetto. Dal momento che nessun riconoscimento deriva dal fatto di supportare il proprio ragionamento con quanti più puntelli coerenti e rigorosi, al fine di valorizzare un'opinione che, in mancanza, neanche meriterebbe di essere definita come tale, l'unico scopo che ci si propone è quello di mettersi in mostra a ogni costo. Serve solo suscitare l'attenzione - nel bene o nel male, non importa - da parte di chi si reputa possa esercitare una qualche influenza determinante in un pubblico di riferimento: poi si resta ad aspettare l'inevitabile "popolarità" che da ciò potrà derivare.

Vengono così, tra l'altro, sferrati attacchi senza motivazioni esaustive a fondamento, spacciandoli però come spassionati consigli a coloro cui siano rivolti: in questo modo, l'intervento effettuato viene convenientemente inquadrato in quelle categorie morali o emozionali che valgono a qualificarlo come buono e giusto in ogni caso. Nessun ricorso viene, invece, operato a categorie razionali che interlocutori più attenti, nonché razionali a propria volta, non esiterebbero ad aspettarsi nonché a richiedere con forza.

Spesso basterebbe, per gli "attaccati", usare la logica per smontare gli altrui castelli di carte edificati sul nulla: invece, danno quasi sempre insensatamente seguito a meri sfoghi verbali, già di per sé insensati, amplificandone così l'effetto. Il circolo è vizioso. I politici incidono in concreto sulla vita della gente e coloro i quali scrivono, a propria volta, sull'evoluzione personale e sociale, entrambi non sempre positivamente. In assenza di giustificazioni adeguate a supporto di quanto affermato, essi non arrecano infatti alcun arricchimento, né valore aggiunto: sarebbe più utile senz'altro stimolare ragionamenti mediante argomentazioni ben formulate. Un'apparizione televisiva in meno o uno scritto non pubblicato, se compensato da una occasione successiva nella quale vengano manifestati maggiore preparazione, studio e rigore razionale, porta di certo a un miglior risultato.

La china che si è intrapresa è pericolosa, la ricerca dell'approvazione a ogni costo, ottenuta con l'arma impropria della mancanza di "giudizio", porta al disuso dell'intelligenza, individuale e collettiva al contempo. È questo l'obiettivo che ci si prefigge? La qualità non paga più evidentemente: la vittoria elettorale o il numero di condivisioni del proprio scritto sui social è l'unico intento? L'adesione a conclusioni declamate dal tribuno di turno è sufficiente o l'apprezzamento del percorso mentale che a esse dovrebbe aver condotto riveste ancora una qualche importanza?

"Mala tempora currunt", potrebbe affermarsi per chiudere il cerchio senza che nulla cambi: ma il circolo vizioso, fin qui rappresentato, va spezzato e ciò non è facile, di certo. Al riguardo, occorre considerare innanzi tutto che forte è l'istanza della collettività di "partecipare" alla politica attuale, nel senso di contare in qualche modo sulle scelte che verranno operate o, almeno, di essere posta in condizione di capirle, quale aspettativa minimale. Ciò richiede argomenti solidi e convincenti, non slogan volti a fare propaganda nella tribuna elettorale permanente della politica nazionale.

Del resto, basti considerare che, in mancanza di motivazioni a supporto delle decisioni assunte così come delle opinioni espresse, nessuna verifica può essere operata da coloro cui esse sono destinate. La partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, in generale, comporta necessariamente che essi siano messi a conoscenza, nel modo più chiaro, di ogni elemento utile a poter valutare: a tal fine, non è sufficiente fornire loro dati e numeri snocciolati senza alcun costrutto, ma usati esclusivamente come uno sfoggio di sapere che al sapere di coloro cui sono indirizzati non aggiunge niente.

Occorre vengano esposte loro le alternative esistenti, persuadendoli in maniera ragionata che la scelta fatta, sulla base di un'analisi accurata di costi e benefici, consente di raggiungere i migliori risultati. È importante altresì dimostrare, nel caso di provvedimenti volti ad arrecare vantaggi diretti a categorie specifiche di soggetti, gli ulteriori vantaggi - indiretti e indotti - che potranno scaturire alla generalità nel suo complesso. Quanto appena esposto va effettuato da politici preparati, che sappiano motivare la direzione intrapresa e gli obiettivi prefissati, nonché da un giornalismo serio, in grado di comprovare le fonti di cui si avvale e soprattutto di fornire elementi solidi e fondati, idonei a consentire di giudicare chi dovrebbe concorrere al cosiddetto bene del Paese.

Senza analisi di impatto ex ante e verifica dei risultati ex post, senza un'informativa costante nel corso di svolgimento di ogni programma intrapreso, ogni democrazia finisce per essere percepita come il governo di coloro che agiscono nell'opacità assoluta, con buona pace di quella trasparenza, tanto menzionata, che rappresenta strumento atto a consentire il controllo diffuso sull'operato di chi detiene il potere.

La democrazia è scelta e scegliere significa disporre di opzioni alternative. Mostrare le opzioni esistenti e motivare con comparazioni ponderate gli effetti che ognuna è capace di produrre compete alla politica così come a chi ne scrive. Questa è cultura, questa è consapevolezza reale. Soprattutto, questa è trasparenza: e chi la pratica in concreto non può fare a meno di argomentare.