Tutto passa, molto torna, niente resta. È il turno del PD?
Istituzioni ed economia
Nella politica italiana tutto quello che avviene sembra sempre "per sempre" ed è un curioso paradosso perché, se c'è una regola, è che tutti i fenomeni, a partire dai più grandi, hanno un ciclo di vita brevissimo e finiscono per uscire dalla cronaca molto prima di passare alla storia.
Del berlusconismo vincente si pretendeva un crisma di eternità e malgrado sia stato il fenomeno più strutturale e duraturo della cosiddetta Seconda Repubblica ne è sopravvissuto un simulacro triste, col Cavaliere assediato da berlusconiani che fanno a gara per essere più berlusconiani di lui, non solo gli "infedeli", come Fitto, ma anche i "fedelissimi", come Brunetta. Anche del prodismo – il solo modo di vincere da sinistra, prima di Renzi – è rimasto certamente Prodi, vecchia riserva della Repubblica e infaticabile globetrotter della consulenza politica internazionale, ma dell'ideologia unionista sono avanzate troppe e diverse versioni apocrife – quella ex Ds, quella post-sinistra Dc, quella vetero-ulivista dei prodiani doc, perfino quella antagonista di Vendola – perché ne sia rimasto qualcosa di originale, posto che mai sia esistito. Insomma, Berlusconi e Prodi rimangono due icone, non due storie politiche incarnate in una continuità istituzionale, politica e, a volere usare le parole grosse, culturale.
Di tutto il resto che ha attraversato il ventennio, non c'è praticamente più traccia. Dal moralismo manettaro di Di Pietro, al "nordismo" leghista, fino al post-comunismo cool della sinistra arcobaleno; per non dire della Bonino e di Monti, due fenomeni prepotentemente europei, diventati italiani per il tempo di un'illusione o di una paura e poi sacrificati in modo sbrigativo (Bonino) e volgare (Monti) al business ad uso di un mercato politico inefficiente e dei suoi improvvisati protagonisti. Alla regola del "tutto passa" non fa eccezione neppure la ciclica riemersione del "vecchio", dato per morto e miracolosamente resuscitato, in perfetto riallineamento allo spirito del tempo.
Così Berlusconi ha attraversato un ventennio di fragorose cadute e di portentose rinascite, scegliendo di volta in volta la meta a seconda della direzione del vento, fino a diventare, come Zelig, un personaggio in cui l'autenticità e la maschera diventano indistinguibili e finiscono per coincidere. Così è accaduto anche per la Lega, che cambia amici e nemici sul filo di un nichilismo e di un vittimismo metodologico, da cui mutando di volta in volta il bersaglio, sempre, in qualche modo, straniero – terrone, italiano, europeo, globale... – riesce in ogni caso a rimediare un "noi particolare" da rappresentare, cioè una ragione di impegno e di odio politico universale. Per certi versi, così è stato anche per l'antipolitica, che uscita dai salotti buoni del ceto medio riflessivo e del girotondismo engagé e si è accampata nelle piazze anonime e interclassiste della protesta grillina e dell'utopia post-democratica di massa, votandosi a quella sorta di "cura Stamina" dispensata dal guaritore genovese. Insomma tutto passa, molto torna, ma niente davvero resta.
Se si dovesse dire quale fenomeno in questi vent'anni ha seguito un corso coerente, non luminoso, ma tenacemente legato a un filo logico, a uno sviluppo storicamente comprensibile, si potrebbe parlare solo di quella "cosa" che è arrivata a essere il PD, fino alla svolta renziana (compresa). È una "cosa" che ha cambiato molti nomi, inglobato e digerito diversi partiti e sotto-partiti, curato l'angoscia di una sinistra repressa da un inconscio resistenziale e alla continua ricerca di una terza via post-comunista e infine allargato il proprio perimetro oltre i confini dell'Italia cosiddetta "moderata", cioè di un progressismo liberale non insensibile alle istanze social, ma incompatibile con le memorie guevariste, l'ortodossia statolatrica e la dogmatica vetero-sindacale.
Di quel percorso Renzi – il fenomeno Renzi, ché il personaggio è probabilmente diverso e meno "grande" del fenomeno, come è già stato per Berlusconi – rappresenta un figlio legittimo e problematico, un estremo troppo estremo per unire, ma utilissimo ad allargare il perimetro oltre il pensabile. Questo è stato il 41% delle europee, il risultato di un trasversalismo ideologicamente indefinito, calato sulle spalle di un partito ancora per buona parte abitato da una classe dirigente affezionata a un'idea etnico-antropologica di sinistra.
Quello che oggi sta culminando in uno scontro sulla legge elettorale, in cui la sinistra PD imbraccia strumentalmente gli argomenti della vecchia Dc sul voto di preferenza come sacro sigillo del voto democratico, è l'esito di questo trauma, reso ancora più acuto dal fatto che evidentemente Renzi finora ha vinto perché è Renzi, non perché è del PD, e ha trasferito il consenso magico sul "suo" partito, non sulla "ditta". Renzi si è però spinto troppo in là, non solo per il patto del Nazareno – che è un onesto patto di potere che i vecchi comunisti erano abituati a negoziare e rispettare – ma per non avere voluto rinnegare il favore dell'Italia post-berlusconiana, per non essersi accontentato di essere solamente un leader di sinistra. Soprattutto Renzi ha espanso i confini del PD ben oltre la prospettiva bipolare, fino a immagine una sorta di democrazia "monocolore", di cui la sua minoranza democratica diffida per ragioni ideologiche, ma che la geometria politica non contempla se non in circostanze eccezionali e per tempi molto limitati. Infatti il PD si sta spaccando proprio su questo: sull'impossibilità di essere "tutto" e sulla impossibilità di essere qualcosa semplicemente a metà tra quello che pensa Renzi e quello che pensano i suoi nemici.
Non è escluso che, complice il successo di Tsipras, la sinistra si ridivida tra un PD meno di sinistra – il partito di Renzi – e un piccolo mondo antico, libero di essere fino in fondo quello che vuole e che può. Detto in altri termini, non è escluso che anche da quelle parti finisca tutto e ritorni, in altra forma, tutto o quasi tutto di quello che è stato e sembrava per sempre superato. Potrebbe dispiacere, ma non stupire. In fondo, le questioni che pone la minoranza PD sono molto più serie dei pretesti che sceglie di usare per dar voce a uno sdegnoso scontento.