renzi cuperlo

Nel dibattito dell'altro ieri alla Direzione PD la minoranza dem è tornata, con quel tono vittimistico e querimonioso che suona così familiare, ma anche così stucchevole fuori dal perimetro della Ditta, a lamentare la gestione verticistica del partito e del governo da parte di un segretario-premier, che ha "presidenzializzato" il proprio doppio ruolo e non pare curarsi troppo dell'esigenza di collegialità invocata dai suoi oppositori.

Su questo l'attacco più duro è giunto da Cuperlo, per cui proprio "l'arroganza da capo", che Renzi ostenta, smentisce la "statura da leader", che egli invece rivendica. Gentiloni, che è uno dei pochi renziani "nativi" tra gli attuali sostenitori del premier, ha risposto a Cuperlo che l'attacco sul metodo nasconde un inestinguibile pregiudizio di merito, secondo cui Renzi, per la sua cultura e provenienza, sarebbe giudicato un estraneo e un intruso, e dunque un usurpatore. Governerebbe a nome della sinistra, ma contro di essa. Detto in altri termini, la sinistra renziana sarebbe troppo "geneticamente modificata", perché i custodi della sinistra tradizionale possano riconoscerne la legittimità e compiacersi dei suoi successi.

Negli attacchi a Renzi si mischiano ostilità personali, che proprio lo stile del premier evidentemente accende, ma anche motivazioni politiche autentiche (anche se non per questo giuste). Un leader della sinistra che dichiara apertis verbis di preferire Marchionne ai sindacati e sceglie di "offendere" una delle più sacre reliquie della storia politico-sindacale italiana, cioè l'articolo 18, deve mettere nel conto il dispetto di molti dirigenti e elettori democratici, che hanno per decenni avversato le tesi che oggi sentono affermare dal proprio capo-partito. Per altro verso, Renzi non ha interesse a custodire i cimeli ideologici della sinistra primo-repubblicana né a conservare un rapporto preferenziale con un sindacato che, fuori dal pubblico impiego, non ha più alcuna rappresentanza del mondo del lavoro reale.

Le due sinistre che oggi il PD contiene, senza più riuscire a disciplinarne l'inimicizia, stanno entrambe dentro quel 30-35% di italiani che oggi darebbero il voto ai dem. È complicato stimare la proporzione tra le parti ed è sicuramente vero che a gonfiare il serbatoio renziano e a giocare a vantaggio del premier è anche lo svecchiamento demografico dell'elettorato democratico, ma è difficile sostenere che l'elettorato, per così dire, tradizionale pesi per una quota solo residuale o irrilevante del consenso PD.

La sinistra dem, uscendo dal PD, si consegnerebbe all'irrilevanza e l'incentivo del voto utile, oltre che l'interesse a partecipare del dividendo di una possibile vittoria, spingerebbe molti "vecchi compagni" (dirigenti, amministratori locali, parlamentari...) a rimanere nel partito. Quindi, come Bersani ha capito, la minoranza non può che stare dentro il PD, sperando di logorare Renzi o di condizionarlo e in questo l'Italicum con l'elezione a preferenze di 240 sui 340 deputati del partito vincente è un vantaggio per il fronte avverso a quello del premier.

Dall'altra parte, Renzi può continuare a prescindere dalla sua minoranza e a isolarla, ma non può liberarsene. Il fatto che nella gestione del dissenso interno - anche sul referendum no-triv - Renzi si sia finora tenuto a distanza di sicurezza da qualunque strumento disciplinare, più che l'indole libertaria, dimostra la consapevolezza del premier che per vincere nel referendum confermativo della riforma costituzionale e nelle successive elezioni politiche gli continuano a servire tutti o buona parte dei voti che ne hanno consacrato la leadership alle scorse europee, perché in un mercato elettorale strutturalmente tripartito non esistono milioni di "voti di ricambio".

Inoltre, se oltre che al lamentato scandalo del Jobs Act e delle riforme istituzionali, si guarda agli altri dossier di governo, la linea seguita dal premier è stata assai meno "irrispettosa" della base sociale tradizionale della sinistra e della sua cultura di riferimento: nessuna rivoluzione nella PA, continue promesse di rimaneggiamento della legge Fornero (in attesa di trovare i quattrini), discriminazione fiscale positiva del lavoro dipendente, retorica anti-austerità e anti-Fiscal Compact, piedi di piombo sul taglio della spesa pubblica, detassazioni e decontribuzioni di scopo...

Le due parti del PD - che, se si sposta lo sguardo da Roma e si va a vedere quel che succede nei cosiddetti territori, hanno rapporti di forza assai meno disuguali e relazioni più normali - sono condannate a stare nello stesso partito ed il PD, se sopravvivrà a questa tensione, è condannato a rimanere un "partito bipartito". Non può tornare ad essere la Ditta, ma non sarà mai un Renzi party o un partito in grado di lasciarsi definitivamente alle spalle la storia e il racconto che l'ha costituito, per diventare una sorta di partito liberal-progressista post-novecentesco, all'insegna di un riformismo anti-ideologico estraneo a tutti i vincoli e i tormenti della tradizione socialista. Ciò che non è riuscito a fare Blair del Labour, non potrà fare Renzi - neppure se lo volesse - del PD.

Certo, non è detto che questo equilibrio instabile tra le parti possa reggere, senza rovinare verso un clima da guerra aperta, che sembra più volte echeggiare nelle parole dei contendenti. Ma se il PD dovesse saltare in aria, salterà in aria per tutti, e non rimarrà più la casa di nessuno.

@carmelopalma