"Un sogno"; anzi, "la cosa più bella che possiamo fare per i figli". Non è un caso che Matteo Renzi, nel lanciare la candidatura di Roma a organizzare le Olimpiadi del 2024, abbia preferito i sentimenti alla ragione. I Giochi olimpici sono un evento straordinario, che catalizza l'attenzione di tutto il mondo verso una dimensione epica oramai estranea al nostro tempo. Tuttavia, ogni spettacolo ha bisogno di un teatro e ogni compagnia necessita di un impresario assennato. Affrontare la questione con un appello ai cuori anziché ai portafogli dei cittadini denota, nella migliore delle ipotesi, una certa confusione di ruoli.

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Allo stesso modo, indire una sorta di referendum sul carattere nazionale degli italiani e sulla capacità del paese di sfidare sé stesso pare una strategia opportunistica volta a eludere il vero tema. Certo, tutti ricordiamo le gestioni disinvolte o maldestre dei Mondiali di calcio del '90, delle Olimpiadi invernali del 2006, dei Mondiali di nuoto del 2009. Ancora di più, tutti abbiamo sotto gli occhi lo scempio di Mafia capitale – ed è lecito dubitare che si possano combattere le abbuffate corruttive incrementando le dimensioni della mangiatoia. Ma se città rigorose come Oslo e Monaco si chiamano fuori dalla mischia; se l'organizzazione dei grandi eventi sportivi è sempre più spesso appannaggio di autocrazie disperate; se persino il Comitato Olimpico Internazionale s'interroga sulla sostenibilità del modello, allora la permeabilità italiana al malaffare retrocede a elemento secondario nella valutazione sulla bontà della proposta.

Impostando la discussione in questi termini, il premier ne occulta il punto di caduta: l'impatto economico dell'organizzazione sui paesi ospitanti. Se sarà garantita la trasparenza dei processi, il successo finanziario della manifestazione sarà assicurato? Questo sembra dare per scontato Renzi, forse sedotto da rivisitazioni atletiche delle mitologie keynesiane. Sfortunatamente, però, la letteratura specialistica – teorica ed empirica – è sostanzialmente unanime nel rigettare la credenza che i grandi eventi sportivi generino crescita.

È facile comprendere come simili opinioni si diffondano, sbandierate come verità di fede dai comitati organizzatori locali, che hanno tutto l'interesse a qualificare i propri sforzi come investimenti a uso della collettività. Di qui, l'abitudine di minimizzare i costi – due studiosi dell'università di Oxford hanno calcolato che lo sforamento medio ammonta al 179% – e sopravvalutare i benefici – confidando nella difficoltà di vagliarne l'adeguatezza a posteriori e, a maggior ragione, in sede di stima preliminare. Così, da un lato i preventivi esplodono e risorse smisurate s'indirizzano alla costruzione di autentiche cattedrali nel deserto; dall'altro, proprio l'assenza di una prospettiva duratura di utilizzo degli impianti e delle infrastrutture fa sì che gli eventuali impulsi all'attività economica si esauriscano fugacemente – quando non si traducono, addirittura, in un'incidenza di segno contrario, spiazzando consumi e investimenti alternativi.

Forse a Palazzo Chigi sfuggono constatazioni tanto banali? Più probabilmente, l'attuale coinquilino preferisce ignorarle, concentrandosi sul pur piccolo capitale politico che l'iniziativa gli può arrecare oggi e sorvolando sulle conseguenze per il futuro. È, infatti, audace ipotizzare che nel 2024 Matteo Renzi guiderà ancora il governo: troppo forte, allora, la tentazione d'intestarsi la conquista delle Olimpiadi senza doverne, poi, pagare il conto. Come prevedibile, la classe dirigente ha accolto con entusiasmo la prospettiva; e, però, la reazione popolare potrebbe vanificare l'esercizio. Ha ragione, signor premier, gli italiani sanno sognare: ma forse non hanno dimenticato come si fa di conto.