Oggi avrebbe dovuto essere il giorno trionfale per Renzi, con la prima approvazione parlamentare del progetto di revisione costituzionale, che prevede lo storico superamento del bicameralismo perfetto. Purtroppo, i dati resi noti ieri dall’Istat hanno guastato il clima, ma al contempo sembrano avere rafforzato la volontà del Presidente del Consiglio di proseguire sul percorso di riforme necessarie per cambiare il verso al Paese, a partire appunto da quelle istituzionali, ritenute la madre di tutte le riforme. In effetti, il piano di riforme istituzionali, il citato progetto di revisione costituzionale e l’Italicum, può essere assunto come efficace paradigma del renzismo, ma, ahimè, per ragioni molto diverse da quelle che avevamo sperato all’inizio della sua parabola.

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In primo luogo, ci lascia stupefatti la riesumazione del cadavere politico di Berlusconi, non tanto perché un soggetto incandidabile, in virtù di una legge che ha lo scopo contrastare la corruzione e il malaffare nella vita pubblica, viene promosso al ruolo di padre costituente (metamorfosi che difficilmente si potrebbe ipotizzare in ordinamenti civili), quanto perché viene imbarcato, addirittura come comandante in seconda, nella rivoluzione renziana uno dei principali responsabili del declino italiano. Con buona pace del Renzi rottamatore. 

In secondo luogo, il (necessario) superamento del bicameralismo perfetto ben si sposa con la caratteristica principale dell’azione politica del Presidente del Consiglio: la frettolosa approssimazione. Pertanto, è chiaro che una seconda Camera concepita dai costituenti come un necessario elemento di rallentamento e ponderazione, onde evitare che il processo legislativo possa essere condizionato da fattori contingenti ed emotivi, costituisca un’aberrazione logica per il fautore del pensiero istintuale, la cui modalità tipica di espressione è il tweet (disciplina in cui il capo del governo obbiettivamente eccelle).

In terzo luogo, la sostanziale predeterminazione degli eletti, o comunque della loro maggior parte, da parte del Capo è un requisito imprescindibile per chi assume il legame fideistico quale principale, se non esclusivo, fattore di valutazione del capitale umano, come dimostrano sia la tendenza alla mortificazione di ogni forma di eccellenza (amministrativa, accademica o professionale), che i diversi provvedimenti (o meglio annunci di provvedimenti) hanno messo in evidenza, sia il continuo richiamo al primato della politica, inteso come un dominio assoluto nei confronti del quale qualsiasi critica, per quanto tecnicamente fondata, costituisce un delitto di lesa maestà.

Vi è, infine, anche nel progetto di revisione costituzionale, la persistente ricerca dell’effetto speciale ai fini elettorali e/o mediatici che annulla qualsiasi considerazione di merito. Ciò vale, in particolare, per la scelta simbolica di superare il bicameralismo perfetto che da sola non sembra idonea a fare conseguire gli obiettivi prefissi, vale a dire: la semplificazione del procedimento legislativo e la certezza della durata dei governi. Al riguardo, premesso che è indubbio che il nostro bipolarismo perfetto rappresenti una singolarità “archeologica” nel panorama comparato e che la previsione di una seconda Camera, non elettiva, rappresentativa delle istituzioni territoriali non è certo uno scandalo costituzionale, va evidenziato che l’attuale riforma rischia di risultare inutile per le due finalità indicate, a dimostrazione della sua reale funzione propagandistica.

Infatti, la riforma non sembra avere preso in debito conto che circa la metà dell’attuale produzione legislativa (misurata in spazio occupato in gazzetta ufficiale) è rappresentato da leggi di conversione di decreti-legge, il che significa che il tempo di approvazione della maggior parte di norme del nostro ordinamento è di appena sessanta giorni. Francamente è difficile immaginare un procedimento legislativo più rapido e snello di quello della decretazione d’urgenza, ragion per cui si rischia di essere facili profeti a ritenere che, nonostante il superamento del bicameralismo perfetto, si continuerà con le (criticabili) prassi legislative già consolidate, che, per l’appunto, garantiscono un procedimento in tempi serrati. Né il superamento del bicameralismo perfetto potrà sanare l’altro fenomeno del cronico ritardo nel processo di attuazione delle norme legislative, a causa della mancata o tardiva adozione dei prescritti decreti ministeriali, sempre più spesso evocati da norme di legge per la compiuta disciplina della normativa.

Di certo essa non migliorerà la questione della certezza della durata dei governi, visto che la riforma lascia immutata la forma di governo parlamentare, cioè sarà sempre necessario il vincolo fiduciario, anche se della sola Camera dei deputati. Ciò indubbiamente ha un ruolo di semplificazione, ma lascia peraltro intatte le problematiche tipiche di questa forma di governo e il conseguente rischio di instabilità politica degli esecutivi, che, come dimostra la storia della seconda Repubblica, non necessariamente coincide con una loro ridotta durata, ma può assumere la forma più insidiosa di una prolungata stasi decisionale, nella quale, per l’appunto, si trova l’accordo quasi esclusivamente sull’approvazione rapida e urgente di norme-manifesto ad uso e consumo degli addetti alle conferenze stampe, ma che sono destinate a restare sulla carta. Da questo punto di vista, il timore è che la riforma renziana incida poco, o nulla, sul concreto  funzionamento del nostro sistema di produzione legislativa e sulla dinamica dei rapporti politici di vertice, in assenza di una nuova forma di governo: essa, quindi, rischia di essere la classica foglia di fico destinata a celare le vergogne di una disarmante nudità (progettuale).

Forse, il successo per il Presidente del Consiglio è arrivato così presto che egli non ha avuto nemmeno il tempo di elaborare una qualsiasi idea o progetto dell’Italia che vorrebbe. Speriamo che, nel tempo necessario per escogitare qualcosa, il Paese non tiri le cuoia.