La Rivoluzione liberal-democratica di febbraio, gli errori del governo provvisorio che favorirono il colpo di mano dei bolscevichi nell’ottobre, i legami con la Rivoluzione del 1905, l'eredità e attualità della figura di Lenin. Questi alcuni dei temi discussi con lo storico Ettore Cinnella a cento anni dalla Rivoluzione Russa, evento che più di tutti ha segnato il Novecento.

DiPasquale comunismo

Professor Cinnella, perché la Rivoluzione Russa del febbraio 1917 è ancora relativamente sconosciuta in Occidente?

In realtà è la Rivoluzione del 1905 che è assai poco conosciuta. Riguardo al 1917 la pubblicistica bolscevica, che poi ha influenzato tutta la storiografia, parla di un processo rivoluzionario scandito in due tempi. A febbraio-marzo ci fu una rivoluzione democratica che abbatté lo zarismo e portò al potere la borghesia. I governi democratici succedutisi nei mesi seguenti non seppero risolvere i drammatici problemi del Paese. Crebbe così l’ondata di protesta: il grande sommovimento popolare, cavalcato da Lenin, culminò in autunno nell’insurrezione bolscevica. È vero che nei manuali di storia non ci sono molte notizie sulla rivoluzione di febbraio, ma non ce ne sono tante neanche sull’Ottobre. Sono rievocati il vittorioso assalto al Palazzo d’Inverno e la formazione del Consiglio dei commissari del popolo. Viene insomma descritta una rivoluzione conclusasi con il trionfo dei bolscevichi, momento culminante dell’intero processo rivoluzionario. È una visione superficiale che non ha alcun fondamento, ma è quella largamente diffusa e accettata.

Quali furono le circostanze storiche e gli errori del governo provvisorio che favorirono il colpo di mano dei bolscevichi in ottobre?

È un problema complesso. Innanzitutto, c’è da dire che il governo provvisorio era lacerato al suo interno. L’esecutivo “‘liberal-borghese” ‒ con un solo ministro socialista, Kerenskij ‒ proclamò la fine dello zarismo e l’avvento della democrazia in Russia, ma in politica estera continuò a seguire la vecchia strada. La Russia era in guerra e si mantenne fedele ai patti stretti con gli alleati prima del conflitto, benché il movimento socialista vi si opponesse. La prima grave crisi avvenne in aprile in seguito alla nota segreta del ministro degli esteri Miljukov agli alleati, che ribadiva la fedeltà russa ai vecchi trattati. Vi furono manifestazioni popolari, che portarono alla caduta del governo provvisorio e alla formazione di un nuovo esecutivo, questa volta di coalizione, un esecutivo di liberali e di socialisti (menscevichi e socialisti rivoluzionari). Però il problema della guerra restò insoluto. Le masse popolari, urbane e rurali, erano stanche. Per questo motivo i bolscevichi avevano buon gioco. La loro propaganda aveva successo perché prometteva la pace subito. Ciò ovviamente scaldava il cuore delle masse popolari. E poi restavano irrisolti i gravi problemi sociali, con la classe operaia che si mobilitava sempre di più, sebbene avesse ottenuto alcune concessioni come la giornata lavorativa di otto ore. I bolscevichi promettono tutto e subito, parlano di controllo operaio che permetterà di risolvere la crisi economica, di migliorare la produzione e di dar voce ai lavoratori. Nelle campagne, promettono la terra ai contadini. L’errore fondamentale in questa fase fu quello commesso dai socialisti rivoluzionari che erano, come nel 1905, il partito più importante della Rivoluzione Russa. Su questo punto molti storici non raccontano tutta la verità. Il partito dei socialisti rivoluzionari rinasce subito dopo la caduta dello zarismo, organizza le masse contadine e svolge un grandioso lavoro di propaganda nelle campagne preparandole alla riforma agraria. Una riforma radicale che prevede la socializzazione della terra: non la nazionalizzazione, bensì la sua distribuzione alle comunità contadine, che l’avrebbero gestita assegnandola su basi egualitarie. Solo che essi si illudono – questo è il grande errore di quasi tutti i socialisti rivoluzionari – che data la diversa cornice istituzionale, cioè essendoci un governo democratico, sarà l’Assemblea Costituente a promulgare la grande legge agraria. Il processo di creazione dei soviet contadini va avanti dalla primavera all’estate, ma il continuo rinvio della socializzazione delle terre fa innervosire gli abitanti delle campagne. La terra non arriva, l’Assemblea Costituente viene sempre rinviata, e in autunno operai e contadini, eccitati dalla propaganda bolscevica, passano a vie di fatto. C’è anche una componente militare nella Rivoluzione d’Ottobre, che è fondamentale. I soldati sono stanchi di combattere. L’offensiva del giugno 1917 voluta dal Ministro della Guerra Kerenskij è un fallimento. I soldati si ammutinano spesso, malmenano e talvolta uccidono i loro ufficiali. Lenin intuisce l’importanza della forza di questo sommovimento plebeo credendolo socialista, e lo cavalca per impadronirsi del potere. Ma quella russa non è una rivoluzione socialista. È invece l’esplosione della rabbia popolare nelle campagne, nelle città e al fronte.

Esistono dei legami tra la Rivoluzione del 1905 e quelle del 1917?

La Rivoluzione del 1905 è sempre stata sottovalutata. Nei manuali di storia ci sono poche righe, quasi fosse un piccolo moto poi fallito. Questo da un lato; dall’altro nella pubblicistica bolscevica e nella storiografia sovietica è stata sempre canonica la visione del 1905 come “prova generale” del 1917. Ma non è così. Nel 1905 la società russa cercò di liberarsi dalle catene dello zarismo e per la prima volta tutti i ceti sociali ‒ insegnanti, medici, ingegneri, impiegati, contadini, operai ‒ nonché le nazionalità non russe dell’impero zarista fecero sentire la loro voce. Fu un grandioso processo rivoluzionario che poi fallì per tutta una serie di ragioni. Il 1905 va studiato nella sua autonomia perché, ripeto, non fu il prologo del 1917. Il 1917 fu piuttosto il prodotto della guerra. Per esempio, i liberali di sinistra nel 1905 auspicavano la sconfitta della Russia nella guerra contro il Giappone, per costringere alla resa la monarchia. Nel 1917, invece, il furore patriottardo dei partiti liberali e dei ceti borghesi si contrappose all’odio per la guerra delle masse popolari. Quindi la situazione è completamente diversa.

Se la Rivoluzione del 1905 avesse trionfato la storia della Russia avrebbe avuto, a suo avviso, uno sviluppo diverso?

Certamente sì. La Rivoluzione del 1905 fu l’approdo di un fecondo processo di occidentalizzazione del Paese. Si continua a ripetere che Pietro il Grande occidentalizzò la Russia, ma in realtà l’occidentalizzazione da lui introdotta fu solo di facciata. Tutte le forze politiche russe di fine Ottocento ‒ dai marxisti ai liberali ‒ nacquero ispirandosi all’Europa occidentale; anche i populisti, pur con le loro profonde radici nella realtà russa, conoscevano i classici del pensiero politico ed economico occidentale. Inoltre, non v’è aspetto della cultura russa di fine Ottocento che non sia legato a quella europea. Sul piano economico si assiste a un’industrializzazione vera; i contadini vengono emancipati, e decade così l’istituto della servitù della gleba, tratto peculiare della Russia fino al 1861. La Rivoluzione del 1905 è il tentativo di unirsi all’Europa. Un tentativo che però fallisce. La Rivoluzione bolscevica non solo non avvicinò la Russia all’Europa ma la allontanò ancora di più, soffocando quei germi di modernità attecchiti in Russia tra Otto e Novecento e ricacciando indietro il Paese di secoli. Nonostante la poderosa industrializzazione, che però fu un’industrializzazione di tipo statalistico e militaresco, i bolscevichi bloccarono i progressi positivi che c’erano stati nella società, nell’economia e nella cultura russa negli ultimi decenni dell’Ottocento. Del resto, la vittoria bolscevica fu dovuta principalmente all’apocalittica e arcaica “jacquerie” contadina dell’autunno 1917, ancor più terribile e devastante di quelle che avevano tante volte squassato la Russia zarista.

Depurato dal contorno acritico e agiografico della propaganda, qual è il reale valore di Lenin come pensatore e ideologo politico?

Lenin non è un pensatore di grande originalità. La difficoltà di capire e catalogare Lenin nella storia del pensiero politico nasce dal fatto che la sua dottrina è formata da diversi strati, anche contraddittori. Il primo strato è il marxismo classico, quello della Seconda Internazionale, ossia l’aspra critica della dottrina sociale populistica, che invece coglieva meglio del marxismo la realtà delle campagne russe. Un altro strato è il giacobinismo populistico, cioè la ripresa di alcune tradizioni del movimento rivoluzionario russo, come quella di Sergej Nečaevev, volte alla creazione di una schiera di rivoluzionari di professione. Inoltre con la Rivoluzione del 1905 Lenin, che fino allora aveva diffidato dei contadini, scoprì la poderosa energia rivoluzionaria delle rivolte agrarie, esaltando la creatività rivoluzionaria delle masse. Ma questo è assai vicino all’anarchismo di Bakunin. Un altro strato è l’improvviso ripudio del socialismo occidentale. Fino al 1914 Lenin si considerò un marxista della Seconda Internazionale, convinto della necessità di due distinte fasi della rivoluzione (democratica e socialista) e quindi ammiratore dell’ordinamento politico dell’Occidente, superiore a quello della Russia zarista. Poi, dopo il 1914, egli stigmatizzò il socialismo europeo, perché colpevole di non aver impedito la guerra, e ruppe con la tradizione della Seconda Internazionale. Ci sono insomma tanti elementi, ma il tratto che in lui non venne mai meno è la fede mistica nel Partito costruito come una falange di rivoluzionari di professione. Ed è questo che gli permise di salvarsi e di vincere in ogni situazione. Lenin è un personaggio complesso, ma senza dubbio nefando. Nel 1921, alla fine della guerra civile, l’unica cosa che avrebbe dovuto fare, e che non fece, per salvare la Russia e il mondo dalla barbarie era collaborare con i partiti socialisti, i quali avevano sempre denunciato i nefasti errori della politica bolscevica. Invece, egli preferì arroccarsi ancora di più nella difesa del monopolio politico del partito comunista, preparando così il terreno al grande cannibale del Novecento russo, Stalin. Lenin, oltremodo spietato con tutti gli avversari, non giunse a macchiarsi dei crimini abietti e infami del suo successore. Tuttavia, fu lui a gettare le basi della mostruosa tirannide sovietica.

Robert Service in una dettagliata biografia di Lenin evidenzia come il leader bolscevico si avvalesse di un linguaggio fortemente aggressivo e usasse spesso parole come rovina, catastrofe, distruzione. Crede che le forze antisistema e populiste odierne si rifacciano a questa retorica che spesso nasconde mancanza di idee e velleitarismo politico?

Non credo. Lenin aveva idee salde, quasi sempre sbagliate e luciferine, ma le aveva. Era lucido e razionale anche nei momenti della peggior follia politica. Lenin non ha niente in comune con un personaggio rozzo e ambiguo come Trump, espressione degli aspetti più selvaggi del capitalismo statunitense, o con i politicanti fascistoidi dell’attuale estrema destra occidentale. Oggi la situazione è completamente diversa. Tra l’altro io non userei nemmeno il nebuloso termine di populismo, dal momento che ho caro il populismo russo ottocentesco! Anche il Movimento 5 Stelle lo definirei, pur con qualche esitazione, ‘fascistoide’ più che populista. All’inizio non era così, perché quel movimento nacque come risposta a un diffuso bisogno di pulizia morale. Molti militanti grillini della prima ora erano persone semplici e perbene ‒ alcuni lo sono anche oggi ‒ ed esprimevano l’esigenza di onestà e di trasparenza di fronte alla degenerazione della vita pubblica, ai privilegi della casta politica, alle ruberie e alla generale corruzione. Ma Grillo è un attore comico senza una chiara visione politica, un personaggio ambiguo e camaleontico con manie di protagonismo e velleità dittatoriali.

In questi ultimi anni abbiamo assistito in Russia al ritorno del culto di Stalin e dell’autocrazia zarista. Putin cercherà di strumentalizzare anche la figura di Lenin per consolidare ulteriormente il proprio potere?

Non credo che Putin voglia farlo. Gli serve di più Stalin, il creatore dell’impero sovietico. Sia Lenin sia Trockij erano dittatori alieni dallo “sciovinismo granrusso” e nemici della Chiesa. Peraltro, la Chiesa perseguitata nel periodo sovietico era migliore di quella odierna. Quella Chiesa ebbe una funzione morale negli Anni Venti e Trenta, quando s’ispirava a ideali d’umanità e difendeva la gente, mentre l’odierno Patriarcato di Mosca è indissolubilmente legato al potere politico. A me sembra che papa Francesco dimostri miopia politica nel cercare un facile accordo con la Chiesa di Mosca. Nell’ansia di collaborare con la Chiesa ortodossa russa, che di cristiano non ha più nulla, il pontefice è stato ingeneroso con la Chiesa greco-cattolica, più di tutte perseguitata ai tempi del regime sovietico. Il documento sottoscritto il 12 febbraio 2016 all’Avana assieme al patriarca Kirill non fa onore al Santo Padre, che tanto si prodiga per il rinnovamento della Chiesa romana. Per non turbare i rapporti con il Patriarcato di Mosca, papa Francesco ha taciuto sul genocidio ucraino del 1932-1933. Ha rievocato e condannato il genocidio armeno, ma non ha detto una parola su quello ucraino. La Chiesa di Mosca ha conosciuto momenti di dignità e di coraggio nei tempi passati e anche nel Novecento; ma oggi, purtroppo, agisce come il massimo baluardo di un regime che è la negazione della civiltà e della morale.