Il Trattato di Lisbona ha trasformato l’Unione Europea in un soggetto chiamato a tutelare pienamente i diritti civili dei suoi cittadini in condizioni di uguaglianza. La creazione di uno jus communis europaeum in materia di libertà fondamentali costituisce una risposta al rischio di 'tirannia delle maggioranze' presente in ogni democrazia e consente una tutela della dignità umana secondo uno standard comune a tutti gli Stati membri.

Pacillo gente

Quando, nel 1950, Giuseppe Capograssi ebbe a scrivere alcune pagine in onore di Francesco Carnelutti, decise di orientarsi su un tema di complessità (e attualità) straordinaria: quale potesse essere il ruolo del diritto dopo la terribile catastrofe della guerra mondiale e dell’Olocausto che la aveva accompagnata(1).

Ciò – scrive Cassese – ovviamente non avvenne a caso: “forse gli uomini hanno bisogno di grandi scossoni, di profondi e radicali rivolgimenti, per ripensare le strutture sociali e i modelli di vita, per decidersi a rinnovare l’intelaiatura del consorzio umano, in uno sforzo di adattamento ai nuovi sviluppi della realtà”(2) . E fu proprio partendo dal reale, da quel terribile reale, che Capograssi giunse ad una terribile intuizione: la sovranità del popolo può portare gli ordinamenti giuridici statuali ad aberrazioni contrarie alla dignità dell’uomo, che possono essere evitate solo attraverso una cooperazione normativa fondata sul primato dei diritti naturali ed inviolabili dell’uomo.

Non è del resto un caso che Gustav Radbruch, Ministro della Giustizia nei Governi di Joseph Wirth e di Gustav Stresemann, abbia orientato la sua Rechtsphilosophie postbellica ad una completa revisione delle sue precedenti opinioni giuspositivistiche in favore di un neo-giusnaturalismo che trae origine proprio dall’esigenza di trovare limiti all’ingiustizia del diritto scritto prodotto da quella sovranità che – anche se proviene dal popolo e non dall’arbitrio di un singolo – agisce intrinsecamente contro la dignità e la libertà dell’essere umano.

In particolare, se prima del 1945 la regolamentazione internazionale dei diritti di libertà era limitata a rapporti bilaterali o multilaterali a carattere dichiaratamente sinallagmatico, che vincolavano direttamente ed unicamente gli Stati stipulanti (e ciò comportava, come diretta conseguenza, che in caso di violazioni degli stessi fossero le relazioni diplomatiche – o, in casi estremi, il conflitto armato - a risolvere la controversia), alla fine del conflitto la comunità internazionale – memore della barbarie dell’Olocausto e fortemente determinata ad impedire un suo rinnovarsi – decise di intervenire per garantire le libertà e i diritti fondamentali degli individui attraverso organismi stabili e sviluppò l’idea di creare un apparato normativo unitario vincolante erga omnes. A partire da quel momento il riconoscimento e la tutela delle libertà fondamentali non vennero più affidati all’arbitraria regolamentazione statale ma iniziarono a fare riferimento a criteri di carattere universale e sovranazionale.

Questa “rivoluzione copernicana” ha trovato nell’idea filosofica di Europa unita, e successivamente in quella giuridico–politica di Unione Europea, il suo pieno compimento. Se infatti già la creazione del Consiglio d’Europa e la promulgazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali avevano rappresentato la strutturazione di uno spazio di tutela delle situazioni giuridiche soggettive fondamentali parzialmente sottratto alla libera disponibilità della sovranità statale, è stato il Trattato di Lisbona a rinsaldare il suddetto spazio e a dare ad esso un primato giuridico e politico che arretra solo di fronte alle Carte costituzionali degli Stati membri.

La (momentanea?) fine del sogno di un Trattato costituzionale per l’Europa – ovvero di un patto fondamentale tra i cittadini dell’Unione destinato a completare il processo di integrazione europea in nome di valori e principi comuni – non ha infatti impedito che il processo di integrazione europea – proprio grazie al Trattato di Lisbona – abbia compiuto significativi passi in avanti sul fronte della tutela dei diritti fondamentali: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007, è infatti oggi dotata dello “stesso valore giuridico dei trattati” (art. 6 TUE).

Essa costituisce dunque la “magna charta” di situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’Unione come sottratte alla disponibilità degli individui ed alle logiche di mercato; situazioni giuridiche attive che possono essere fatte valere nei confronti dell’Unione, degli stati membri e – in senso orizzontale – della generalità dei consociati, dal momento che esse danno vita – in forza dell’art. 6 TUE – ai principi su cui si fonda l’Unione.

I diritti elencati nella Carta del 2000/2007 sono pertanto, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dotati di garanzie strutturali legate alla rigidità dei Trattati; il quadro normativo appena descritto obbliga le istituzioni europee a tutelare e promuovere tali diritti nell’esercizio dell’azione legislativa, esecutiva e giudiziaria, e vincola i pubblici poteri degli Stati membri a rispettare ogni singola disposizione contenuta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Ciò comporta non solo che il giudice nazionale sia tenuto a disapplicare le norme interne in contrasto con quanto stabilito dalla Carta, ma anche che tutte le politiche dell’Unione siano tenute ad essere esercitate con l’obbiettivo prioritario di promuovere e tutelare le situazioni giuridiche soggettive riconosciute come fondamentali da quest’ultima. Per cui l’Unione Europea impedisce alla maggioranza un'onnipotente tirannia e la vincola al rispetto di posizioni giuridiche soggettive insopprimibili: il problema delle situazioni giuridiche soggettive legate alla dignità dell'uomo e capaci di tradursi in spazi di libertà assicurati a tutti i membri della famiglia umana nei confronti di ogni intromissione dei poteri pubblici si è spostato – con la Carta di Roma prima e con il Trattato di Lisbona poi - dal piano della morale e del diritto naturale a quello del diritto positivo.

L'articolo 7 del TUE stabilisce un sistema di intervento dell’UE laddove esista “un evidente rischio di violazione grave”, da parte di uno Stato membro, dei valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze, nonché un meccanismo di sanzioni in caso di constatazione “di una violazione grave e persistente” di questi stessi valori. Vanno poi ricordati l'articolo 8 del TFUE relativo alla parità tra uomini e donne e l'articolo 10 relativo alla lotta contro le discriminazioni.

È grazie al Trattato di Lisbona, ad esempio, che possiamo e dobbiamo dimenticare un diritto ecclesiastico che renda gli Stati membri difensori della verità di una fede (sia essa religiosa o laica): tali Stati debbono infatti essere organizzatori neutrali ed imparziali dell’esercizio delle diverse religioni e delle diverse credenze. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’Unione si fonda “sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze” (art. 2 del Trattato sull’Unione Europea); valori che solo un ordinamento democratico fondato sulla neutralità e sull’imparzialità confessionale può efficacemente realizzare.

Tale imparzialità confessionale – che secondo quanto affermato dalla Corte di Strasburgo caratterizza la "società democratica" e deve basarsi sul dialogo e su uno spirito di compromesso tra i diversi gruppi confessionali che si muovono sul medesimo territorio – impegna i pubblici poteri ad osservare una posizione di equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le credenze di religione, senza derive identitarie dirette a privilegiare confessioni radicate sul territorio o a danneggiare irragionevolmente un gruppo di recente insediamento.

Ciò da un lato inibisce allo Stato la possibilità di esprimere giudizi di meritevolezza o di biasimo nei confronti dei principi professati da una confessione, ma comporta dall’altro il dovere, per gli organi ed i funzionari pubblici, di tutelare in maniera piena le minoranze confessionali e di promuovere l’esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali in condizioni di uguaglianza.

Se è vero che in Italia il passaggio dal confessionismo alla laicità era già stato definito in modo chiaro dalla Corte costituzionale (sent. 203/1989), è altrettanto vero che lo spostamento a livello europeo delle garanzie per i diritti fondamentali e per i principi giuridici diretti a garantire pienamente la libertà morale di maggioranze e minoranze si pone come un baluardo di fronte alla loro regressione nel tempo ed alla loro limitazione nello spazio.

Ma la questione ecclesiastica è solo un esempio. Dobbiamo alla Corte di Giustizia dell’UE – organo avente il compito di giudicare sia la compatibilità della legislazione dell'UE con i diritti fondamentali sia la compatibilità delle misure prese a livello nazionale dagli Stati membri in applicazione o nel rispetto del diritto dell'UE - ad esempio, se all’interno dello spazio dell’Unione le donne sono ammesse ad entrare in servizio nelle Forze Armate (caso Kreil) o se è considerata illegittima l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio (caso El Dridi).

Per dirla con Marta Cartabia(3), questa azione di incardinazione dei diritti fondamentali entro la dimensione sovranazionale dell’Unione Europea non è condotta in contrasto, bensì in armonia con le tradizioni costituzionali dei singoli Stati: l’Unione assicura solo che la polifonia delle voci non diventi mai un canto cacofonico, in cui la voce di uno o più dei suoi interpreti finisca per assumere i toni feroci di una tirannia della maggioranza, di “crucifige” urlato da una folla ebbra di se stessa e dimentica della catastrofe che – non molti anni fa – ha addotto lutti infiniti al Vecchio Continente.

Note al testo:

(1) G. Capograssi, Il diritto dopo la catastrofe, in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, Padova, 1950, 1° vol., pp. 1-32.
(2) A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Roma/Bari, 1988, p. 9
(3) M . Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, 2007, pp. 13 – 66.