Elly Schlein è la segretaria perfetta. Per il definitivo divorzio del PD dalla realtà
Istituzioni ed economia
Elly Schlein si è candidata alla segreteria del Partito Democratico. È una buona notizia. Tranne che per il Partito Democratico, che rischia di avvicinarsi alla sua leadership non sulla base della sua visione programmatica – le care e vecchie idee – ma in virtù dei propri mancati traguardi. Trantasettenne, donna, bisessuale, europarlamentare capace, vicina a movimenti come Podemos e Syriza, effettivamente Schlein è un autentico passapartout progressista. Prontamente eletta dai media europei a “risposta anti-Meloni”, una sua mancata elezione rifletterebbe un raro anticonformismo.
Peccato che le idee di Schlein incarnino quel divorzio dalla realtà consumato dalla sinistra italiana quando ha deciso di rompere l’urna della liturgia marxista e di mescolarne le ceneri con i fanghi del populismo. Passando dalle lotte operaie del secolo scorso a barricare l’iniquità intergenerazionale esplosa in quello attuale, vero scandalo etico del paese. Arrivando così a mescolarsi con quel paternalismo-pop che considera redditi e prepensionamenti di cittadinanza e contratti di lavoro piombati come bare alla stregua di diritti umani. Tramutandosi, infine, in quel progressismo svuotato di prassi ed infarcito di conformoralismo, che riempie i talk show di mezza Europa. Quello che il capitalismo, che le disuguaglianze, che il precariato, che il neoliberismo. Naturalmente, che Renzi.
Quello che in una fase storica in cui parità e rappresentanza di genere vanno necessariamente di pari passo, non esita a dichiarare che “non ce ne facciamo niente di un premier donna se non sta dalla parte delle donne”. Quella sinistra, insomma, col fischietto in bocca e la paletta in mano ancora convinta di dirigere il traffico morale della storia – ma che a furia di dedicarsi a pratiche ombelicali come “ritrovare una identità chiara, comprensibile e coerente” da “partito di sinistra”, ha perso traccia della contemporaneità: che spende “cercando di capire” come “cambiare il modello di sviluppo neoliberista che si è rivelato insostenibile per le persone e per il pianeta”.
Verrebbe da sbadigliare. Se non fosse che sono proprio queste banalità, che non dicono nulla e mettono tutti d’accordo, a fare di Schlein la candidata ideale alla segreteria del PD: la perfetta non-alternativa per inscenare quel cambiamento che non cambierà nulla, traghettando il partito fino alla prossima crisi identitaria con quel tanto di carisma, ed indubbie qualità, da mascherarne il perenne incagliamento.
Basterebbero baggianate come “mantra neoliberista” a fare intravvedere il fondale. Obbrobrio linguistico oltre che concettuale, spiace, davvero, sentirlo pronunciare da una politica impegnata che non insegna filosofia a contratto in un'alta scuola politecnica per passare la parte produttiva della propria giornata su Twitter – ma che ha avuto accesso ai più elevati gradi di formazione intellettuale e politica. E che pertanto, delle vere e grandi ingiustizie italiane – a partire dal sacrificio delle opportunità dei suoi coetanei sull’altare del bacino elettorale delle generazioni che li precedono – e del loro non aver nulla a che fare col neoliberismo, ma col cinismo transpartitico conficcato nel derma elettorale prodotto dalla demografia e dalle rispettive geografie, dovrebbe essersi resa conto.
Non se ne è resa conto. Tre, le “sfide cruciali”: disuguaglianze, clima, precariato. Tre, le originali strategie: politiche fiscali progressive, nucleare-no-rinnovabili-sì, riduzione delle forme contrattuali a tempo determinato. “Un nuovo modello di sviluppo”. Da promuoversi a colpi di genio come “ridurre l’orario di lavoro a parità di salario”. Pazienza se in un paese con debito alto e produttività bassa saranno esattamente i salariati più deboli ad ottenere esclusivamente più tempo per essere più poveri.
Qui lo sbadiglio diventerebbe contagioso. A tener svegli quanti con la realtà sono ancora saldamente coniugati ci pensano la retorica del ripudio della guerra e gli appelli allo sforzo diplomatico per fermare l’invasione dell’Ucraina, puntellati da periodici dubbi sull’invio di armi: altro esercizio di funambolismo che, al netto di interrogativi legittimi e meritevoli di riflessione pubblica, non scontenta nessuno. Che è ciò che serve per mettersi alla guida di un partito che per combattere le muffe ramificatesi alla sua base, anziché areare le fondamenta ha sempre preferito ridipingere la facciata: e di cui Schlein, scontatamente, intenderebbe “salvaguardare la pluralità”. Mai sia che qualcuno presagisse l’apertura di qualche finestra.
Risalperebbe così, con le sinistre europee pronte ad irrorarne lo scafo di champagne rosé, la nave dei democratici italiani: femminista e non femminile, anti-nucleare ed anti-precariato, fluida e pacifista, vicina ai movimenti sociali e alle cause LGTBQ+. Irragionevolmente anti-Renziana, anti-meloniana a prescindere. Pronta ad accontentare tutti navigando contro qualcuno o qualcosa: foss’anche la realtà.
La strategia di affondamento è nota, ripugnante, e rodatissima dalla poltiglia illiberale con cui viene rattoppato lo scafo da quando la rotta della storia ha cominciato a pretendere scelte giuste, ma impopolari. La attueranno quei sabotatori che di Schlein avran cavalcato l’onda di immagine, salvo poi affondarne la persona: per le sue origini agiate, la sua famiglia di lustro, e chissà quale altra porcheria classista, sessista, giustizialista. La difenderanno quelli che lei considera i traditori della coerenza identitaria del partito – forse tra i pochi, non facendone più parte, che sono interessati esclusivamente alle sue idee. E che condividono gli obiettivi trasversali – tra cui il salario minimo – di cui quelle buone, a voler dialogare, sono sempre gravide. Ma anche di questo, lei non sembra essersi resa conto.