DiPasquale comunismo

Considerate la diversità culturale un valore aggiunto assoluto per la società? Ritenete che la genitorialità sia un diritto da garantirsi anche attraverso la regolamentazione della Gestazione per Altri (GpA)? Credete che i Paesi dell’Unione Europea debbano essere incondizionatamente aperti all’accoglienza di migranti irregolari? La distanza tra la ricchezza dell’1% della popolazione mondiale e il resto è ingiusta?

Alcuni di voi risponderanno motivatamente ad ognuna di queste domande. Altri, come me, perlomeno in merito ad alcune continueranno indefinitamente a vivisezionare i dati e gli argomenti razionali a supporto delle possibili risposte. Altri ancora invece rispondono a questo tipo di domande senza soffermarsi granché a riflettere; replicando, con le loro risposte, l’aderenza più o meno consapevole a valori e sentimenti morali facenti capo alle proprie affiliazioni religiose, culturali e politiche.

Questa tendenza a conformare il proprio giudizio normativo – posizionandolo sullo spettro che va da ciò che si considera “giusto” ed “accettabile” a “sbagliato” ed “inaccettabile” – a quello di un gruppo di riferimento è stata definita, da tre studiosi di filosofia della scienza, conformorality (Lisciandra et al, 2013). Il loro studio documenta come le norme prevalenti all’interno di un gruppo condizionano il giudizio che viene emesso a riguardo dai singoli individui. Mentre le norme morali – come quella di non forzare una persona ad un rapporto sessuale – sono meno suscettibili di “conformoralità”, quelle di carattere sociale relative ad una determinata concezione di decenza – come urinarsi addosso a vicenda durante un rapporto consensuale – tendono a condizionare maggiormente il giudizio dei singoli. In sostanza, il nostro contesto ed affiliazioni sociali attiverebbero un meccanismo di sospensione del nostro giudizio critico, che tenderebbe così a conformarsi a quello maggioritario.

Ora, torniamo alle domande iniziali. Se è vero che la diversità culturale arricchisce il patrimonio di prospettive rappresentate e rappresentabili in una data società, è pur vero che tale diversità, se osservata attraverso la lente dei diritti individuali fondamentali, può manifestarsi in forme contrarie a ciò che è ritenuto “giusto” o “accettabile”. Il caso più banale è quello del velo integrale in uso presso alcune comunità musulmane, il cui utilizzo nei luoghi pubblici è stato oggetto di dibattito in diversi Parlamenti europei (e, da taluni, vietato). Un caso più drammatico è quello della mutilazione genitale femminile in uso presso alcune popolazioni africane; pratica invalidante che, nelle rispettive comunità patriarcali, trova giustificazione in un mix di fattori culturali, sociali e religiosi (Agenzia Europea per l’Uguaglianza di Genere, 2013). Nell’Unione Europea si stima che questa pratica abbia già riguardato circa 500.000 donne, e che 180.000 ragazze siano esposte al rischio di mutilazione ogni anno.

Alla generica domanda se la diversità culturale sia un valore aggiunto assoluto per la società, è quindi chiaro come non sia possibile rispondere a meno di confinare tale diversità all’interno di un perimetro comune di diritti umani fondamentali, e di limitazioni conseguenti della libertà individuale. Al di fuori di quel perimetro, nessuna forma di diversità culturale lesiva di quei diritti può essere giustificata in virtù di una sua concezione come valore assoluto e primario. Non nelle democrazie liberali, dove lo spazio legittimo di tale diversità non può che essere ristretto al vasto corollario di differenze residue rispetto ad un nucleo di diritti ed obblighi comuni al cui centro permane l’individuo, la sua autodeterminazione, e la sua inviolabile integrità.

Riflessione, invero, elementare. Ma tutt’altro che scontata. Per esempio per quanti confondono i concetti di tolleranza ed emancipazione con l’espansione dei diritti individuali all’infinito, e quello di giustizia con l’appiattimento degli obblighi e dei meriti individuali ad una degradante uguaglianza. Espansione ed appiattimento a cui si sono dedicati con particolare impegno i difensori dei valori della cosiddetta “vera sinistra”.

Gli esempi si sprecano. In un articolo online di Repubblica di qualche anno fa, riportando la propria esperienza in giro per Roma ricoperta da un burqa, una giornalista denunciava con foga e sconcerto la discriminazione di cui si era sentita oggetto per il fatto di essere stata fermata alle varie postazioni di forze dell’ordine che puntellano il centro per un controllo di identità. Il suo oltraggio per i risultati di questo breve esperimento etnografico era così pregiudiziale che, nonostante il loro presumibile orientamento, i lettori del giornale la travolsero con una slavina di commenti negativi. L’articolo venne rimosso (diversamente, rimanderei volentieri alla fonte). Durante l’ultima campagna elettorale, gli scissionisti del rione Liberi e Uguali capeggiati da Pietro Grasso hanno riesumato i “veri valori della sinistra” promuovendo, rispettivamente, l’abolizione delle tasse universitarie e la concessione di asilo a tutti i migranti, senza distinzioni di priorità e provenienza. In questi giorni, l’Unione Sindacale di Base (USB) ha indetto uno sciopero nello stabilimento FIAT di Melfi per protestare, al penetrante motto di “troppa iniquità”, contro la cifra pagata da Juventus Football Club per l’acquisto di Cristiano Ronaldo.

Quella di un mondo in cui le libertà individuali dovrebbero espandersi al punto di restringere l’area comune del diritto ad un giardinetto per anziani démodé, ed in cui un’esasperata uguaglianza dovrebbe sostituirsi ad ogni valutazione dei meriti, obblighi e bisogni effettivi dei singoli, è una visione del tutto legittima. Entro certi limiti, lo è anche accusare quanti ne colgono le micidiali storture di razzismo, bigottismo ed ignoranza, classismo e neoliberismo, e di tutti i vari attributi mitragliati online ed offline contro chiunque osi sollevare un dubbio sull’opportunità di continuare ad avanzare verso quel mondo.

Sarebbe ora però che chi lancia queste accuse si fermi a riflettere. E che consideri l’ipotesi che l’ingranaggio che arma il suo ordigno interiore di giudizi così immediati non sia altro che l’insopportabile conformoralismo – termine più appropriato al caso di conformoralità – di tanta sinistra. Quella sinistra per cui la diversità è sempre e comunque buona e l’uguaglianza sempre e comunque giusta. Per cui la ricchezza è sempre e comunque originata da sfruttamento ed il mercato sempre e comunque malvagio.

Quella sinistra incapace di traghettare la propria visione del mondo dalle sponde del ‘900 a quelle del nuovo secolo, a cui non è mai realmente attraccata. E che ha spinto tanti italiani a saltare a bordo del motoscafo populista, capitanato da mediocri, sull’onda di sentimenti contraddittori e variamente distribuiti che vanno dallo sfinimento per la costante demonizzazione dell’impresa privata all’eterna aspettativa di assistenzialismo alla più viscerale ed omogeneamente diffusa invidia sociale.

Sentimenti che molti italiani, paradossalmente, hanno imparato a coltivare mentre si trovavano ancora sul suo barcone. Quello della sinistra del ‘900, o che al ‘900 guarda con nostalgia. Che persevera nel confondere i suoi “veri valori” con i disvalori che la stanno affondando. Quelli che hanno destinato, alla generazione e alla categoria di lavoratori di Pietro Grasso, solo garanzie e privilegi; e ai nostri giovani, la bugia che eliminare le tasse universitarie o vincolare ulteriormente l’impresa li renderà più liberi e uguali.

Quella sinistra appiattita ed appiattente che continua a non accorgersi che, negli anni 2000, l’unica differenza tra sé ed i capitani mediocri è che questi, le bugie, le sanno raccontare molto meglio.