salvini tramonto euro grande

Le discussioni, tanto accorate, quanto inutili, sullo scontro Conte-Di Maio potrebbero essere agevolmente ricondotte alla loro matrice comune: quella di una commedia degli inganni tra due interpreti di vaglia del trasformismo grillino; tra due campioni di un (non) partito senza altra identità di quella delle maschere indossate per intercettare il flusso di coscienza e di incoscienza dell’opinione pubblica e per offrire una sponda al discorso dell’odio o del malcontento, dilagato tra chi vorrebbe stare meglio di come sta o, almeno, che gli altri stessero peggio di come stanno, secondo quell’idea pervertita dell’uguaglianza, per cui se tutti stanno ugualmente male o peggio – tutti con gli stessi tormenti e le stesse frustrazioni – allora tutto torna, tutto si conforma, se non a uno stato di felicità, a un ideale sinistramente sovietico, ma “onesto”, di giustizia.

Conte e Di Maio sono uguali, perché non sono mai niente di diverso da quello che è bene che appaiano, per valorizzare il senso di una finzione o il copione di una rappresentazione intercambiabile, a seconda delle circostanze. Nel “così è se vi pare” della drammaturgia grillina, Di Maio può vestire i panni del pentito del radicalismo protestatario, pur essendo stato il capo politico di un (non) partito di potere, votato alla ghigliottina antiparlamentare e al ribellismo dei gilet gialli e Conte diventare un convertito al radicalismo anti-istituzionale, pur essendo stato, per due volte, Presidente del Consiglio, servo sciocco di Trump e principe dei Dpcm. Il nullismo ideologico e il nichilismo politico li autorizza, entrambi e in eguale misura, alle più spericolate conversioni.

Il paradosso però è che in questi giorni, se il “centrismo” di Di Maio appare patetico e recitativo, finisce per sembrare più credibile e autorizzato quello degli esponenti leghisti che, avendo accompagnato e incoraggiato Salvini nel (neppure troppo complicato) percorso di trasformazione della Lega in una forza lepenista, oggi sono incredibilmente accreditati di una caratura moderata o addirittura europeista e sono considerati - a differenza del povero Giggino – interpreti credibili della fondazione di un nuovo “centro moderato” ed evocati come possibili artefici di un governo del centro-destra responsabile o addirittura sostenitori di un nuovo governo Draghi.

In termini teorici, occorrerebbe capire perché, se Conte e Di Maio portano entrambi e interamente la colpa del populo-sfascismo grillino, invece Giorgetti e Zaia (per fare i due nomi più illustri) sarebbero innocenti rispetto alla parabola del fascio-sovranismo del Carroccio e l’unico colpevole sarebbe Salvini.

In termini pratici, bisognerebbe capire perché il più illustre Presidente di Regione leghista, che ha scelto, dopo l’invasione del 2014, di fare riconoscere dal Veneto la sovranità russa alla Crimea o il n°2 di Salvini, che lo ha accompagnato in tutte le commendevoli e non commendevoli (a seconda dei gusti) imprese, dal 2013 a oggi, sarebbero vergini dalle responsabilità della politica dell’odio e del Papeete, di quota 100 e dei decreti sicurezza, della propagandata uscita dall’euro e del sabotaggio orbaniano dell’Ue, del putinismo di lotta e del trumpismo di governo.

Anche questa discriminazione positiva e negativa dei protagonisti principali della stagione populista e sovranista – non stiamo parlando dei comprimari, ma delle prime file – racconta di come sta cambiando il sentimento (non deontologico-professionale, ma collateralistico-comunicazionale) della stampa italiana e di chi siano i sommersi e i salvati dei tempi nuovi post-grillini. Più profondamente, purtroppo, questo fenomeno dimostra come il racconto della politica italiana conservi tutti i difetti e vizi del suo oggetto.