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Trump sta grossomodo facendo quello che aveva promesso in campagna elettorale e, almeno sul piano della comunicazione, sta cambiando l’America. Ci sarà tempo per analizzare gli effetti del nuovo corso alla Casa Bianca sulla scena internazionale, rispetto al Medio Oriente o all’Asia o all’Africa. C’è un punto su cui però il gioco si sta facendo molto duro anche per noi italiani: quello del protezionismo di Trump nei confronti della Ue. Il mondo chiuso che Trump ha invocato, convincendo oltre sessanta milioni di elettori americani, si costruisce con il protezionismo.

Trump ha parlato di un “massacro americano” causato dal libero commercio mondiale: penso che la sua sia una china pericolosa, che molte delle tensioni sul mercato del lavoro cui il Presidente vuole rispondere con il protezionismo siano causate dall’innovazione tecnologica che viene dalla “sua” California e che una guerra commerciale mondiale renderebbe il mondo e gli amati - da me - Stati Uniti un posto meno libero e prospero. Refrattario al diritto internazionale, il Presidente USA sta cercando di sostituire ad un commercio basato sulle regole uno basato su accordi mercantili tra grandi potenze, a partire da quella che lui guida e che tale è diventata avendo imposto i propri standard al mondo negli ultimi decenni. Rinunciare a questi standard globali, costruiti su accordi multilaterali inclusivi, basati su valori universali ma di derivazione occidentale, introdurrà una competizione tra modelli diversi in un momento in cui gli equilibri demografici ed economici sconsiglierebbero di farlo, se non per avvantaggiare in primo luogo la Cina.

Barriere commerciali e ritorsioni protezionistiche porterebbero effetti difficilmente quantificabili nelle catene internazionali del valore, ma è facile scommettere che non sarebbero positive, specie per i paesi manifatturieri orientati all’export come l’Italia. Trump ha dichiarato guerra commerciale alla Cina, certo; ma anche all’Unione europea, senza molto distinguere tra i due e allargando l’Atlantico che invece dovremmo restringere per costruire un’alleanza delle grandi democrazia fondate sulla libertà degli individui e lo stato di diritto.

Trump ha spiegato due giorni fa che Unione europea “suona bene, ma è stata formata per approfittare degli USA”. Retoricamente, il presidente Usa ha detto di non avercela con i leader europei bensì con i suoi predecessori; ma il punto è che siamo sull’orlo di una guerra dei dazi che vedremo se resterà confinata alla propaganda apodittica dell’ “America First” oppure no, come c’è da temere.

L’Italia ha sperimentato negli ultimi anni un boom di export, dovuto alla competitività crescente delle proprie imprese, allo sforzo positivo degli ultimi governi in termini di servizi, a politiche orientate all’internazionalizzazione delle imprese e a un quadro positivo di regole e accordi commerciali stipulati e garantiti dalla Unione europea. Ovvio: tra surplus commerciali, spese in ambito Nato e altro, elementi per un negoziato tra Ue e USA ci sono sempre stati e ci sono anche oggi, a partire dal ruolo della grandi multinazionali del web per le quali il mercato europeo resta decisivo; ma minacciare la guerra commerciale a base di dazi e quote, magari per galvanizzare gli elettori del Michigan o della Pennsylvania, può portare ad un overshooting controproducente da cui sarebbe faticoso tornare indietro.

Se prendiamo l’ultimo accordo commerciale stipulato, quello molto innovativo tra Ue e Canada - il CETA - che riconosce anche le IGT, vediamo che nei primi mesi di entrata in vigore in via provvisoria il nostro Paese ne ha beneficiato in modo netto. Il Canada è il nono maggior importatore al mondo e, dopo l’accordo, l’export europeo è complessivamente cresciuto del 10% sull’analogo periodo precedente, mentre l’import è rimasto stabile. Per quanto riguarda l’esportazione italiana di prodotti agroindustriali, il balzo è stato del 14%, superiore anche a quello francese (12%). Più o meno quello che ci si aspettava da parte di coloro (compreso il Governo italiano, che con il Ministro Calenda è stato tra i più proattivi durante il negoziato Bruxelles-Ottawa) che hanno voluto l’accordo: un Paese con tante imprese medio piccole, che hanno un potenziale di esportazioni ancora inespresso, beneficia di un quadro di regole certe oltre che dell’abbattimento delle barriere tariffarie.

Torniamo a Trump: Merkel, Macron e May (sì, May) hanno indirizzato una risposta all’inquilino della Casa Bianca, ribadendo che se dopodomani dovessero scattare i dazi su alluminio ed acciaio (ma il discorso del Presidente USA è molto più ampio) l’Europa reagirà. Merkel, Macron e l’uscente (dall’Ue) May: a proposito di interesse dell’Italia e degli italiani, mancava il nostro Presidente del Consiglio. Se Gentiloni fosse stato pienamente in sella è certo che sarebbe stato firmatario del messaggio idealmente spedito a Trump dai leader, e che ci sarebbe stato con lo spirito giusto, cioè a difesa dell’Unione europea e del libero commercio sulla base delle regole internazionali e degli accordi.

Nel contesto istituzionale delicato di questi giorni, la posizione defilata dell’Italia è più che comprensibile, ma la domanda decisiva è: cosa avrebbero fatto e detto i due pretendenti a palazzo Chigi, Di Maio e Salvini? Avrebbero continuato a dare ragione a Trump come hanno fatto sul protezionismo in campagna elettorale? O come hanno fatto votando contro la ratifica del CETA nella scorsa legislatura alla Commissione Esteri del Senato? Avrebbero continuato la loro propaganda protezionista e antieuropea o avrebbe fatto gli interessi dell’Italia schierandosi all’unisono con Merkel, Macron e May?

In queste settimane Di Maio e Salvini ci hanno ripetuto ininterrottamente che vogliono governare per fare gli interessi dell’Italia. Bene, nel frattempo, ci vogliono dire cosa pensano dei dazi di Trump e della risposta dei leader europei? E al Vinitaly, assaggiando Sforzato o Primitivo, hanno spiegato ai produttori che loro affosseranno il CETA, che ha già portato ad un aumento dell’export di vino in Canada pari all’ 11%?

@bendellavedova