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Cantavano “Zombie”, si diceva nella parte prima di questo saggio d’appendice, i manifestanti russi nel blindato della polizia, diretti verso una notte di botte e waterboarding. «La propaganda del Cremlino ha trasformato in zombie il popolo russo» ha detto Marina Ovsyannikova, la giornalista che ha clamorosamente sfidato Putin nella tv di Stato.

Un verso di quel brano, scritto da Dolores O’Riordan in “reazione” ai due attentati terroristici dell’IRA, in Irlanda, nel marzo del 1993, sembra stranamente toccare una corda fondamentale dal rapporto fra società civile e forze armate russe: «il cuore spezzato di un’altra madre sta prendendo il sopravvento». Oggi le madri russe col cuore spezzato riconoscono i volti dei loro figli, prigionieri o morti, su Telegram, e scendono in piazza rischiando fino a quindici anni di prigione per sbugiardare il Cremlino: a occupare l’Ucraina sono stati mandati anche soldati di leva e riservisti.

Durante la prima guerra cecena il Comitato delle madri dei soldati fu un pilastro della galassia pacifista; durante e dopo la seconda guerra cecena, alla quale il neo-nominato primo ministro prima e presidente ad interim poi Vladimir Putin si approcciò con particolare ferocia (un’avvisaglia…), furono le madri a chiedere tenacemente conto della carneficina dei figli mandati al fronte tramite estenuanti pellegrinaggi al tribunale di Mosca; ne “La Russia di Putin” Anna Politkovskaja racconta del calvario attraversato da una madre, Nina Ivanovna Levurda, per conoscere le circostanze della morte del figlio, arruolatosi nel cinquantottesimo corpo d’armata, battaglione-paradigma dell’esercito russo per la violenza esercitata dagli ufficiali ai danni dei sottufficiali e da questi ai danni dei soldati semplici.

Follow the money

Anna Politkovskaja raccontò con dovizia di dettagli la Russia di Putin, dal sistema giudiziario che è una dependance politico-istituzionale del Cremlino alla ri-anarchizzazione dell’esercito, come si diceva, dopo i fallimentari tentativi di normalizzazione da parte di Boris Eltsin; venne trovata morta con un proiettile in testa nell’ascensore del palazzo in cui abitava, a Mosca, il 7 ottobre del 2006, giorno del cinquantaquattresimo compleanno di Putin – nei regimi non-democratici, evidentemente, è d’uso portare in dono ai dittatori le teste di personalità non gradite. «Bisogna essere disposti a sopportare molto, anche in termini di difficoltà economica, per amore della libertà»: Politkovskaja centrò il punto, fornendoci una chiave di lettura utilissima.

Quanto siamo disposti a pagare, nel senso propriamente economico del termine, per amore della libertà? Sull’intero globo si abbatterà, asimmetricamente, la tempesta perfetta: le politiche monetarie espansive della Fed e della Bce, l’impennata post-pandemica della domanda e gli effetti dell’invasione dell’Ucraina – Russia, Ucraina e Kazakistan esportano grano per 60 milioni di tonnellate l’anno e mais per più di 25 milioni di tonnellate; sul caro energia e sul blocco dell’export di nitrato d’ammonio russo è inutile ribadire quanto è già noto – tutto questo rischia di spingere l’inflazione, la più regressiva delle tasse, ai livelli degli anni ’70 un po’ ovunque, mentre all’orizzonte appare lo spettro della stagflazione.

Yemen, Sudan, Siria, Libano e Tunisia rischiano la catastrofe alimentare. Il Belpaese è uno dei più esposti, sia sulle filiere agroalimentari destabilizzate dalla crisi ucraina (gas e materie prime sono due input fondamentali del nostro apparato industriale) sia sul mercato del lusso significativamente ridimensionato dalle sanzioni erogate ai danni degli oligarchi: terminata la luna di miele euro-atlantica e antirussa, c’è il rischio che emergano ancora una volta pericolose pulsioni antisistema.

E quanto sono disposti a soffrire, invece, in Russia, nell’isolamento economico-finanziario e sotto la cappa della stalinizzazione del sistema politico-istituzionale? Risponderanno con entusiasmo o con l’ammutinamento, alla svolta totalitaria plasticamente impressa ieri, allo stadio Luzniki, dove si è assistito all’avvio della “costruzione” di due pilastri dei sistemi appunto totalitari, cioè la mobilitazione delle masse e la deificazione del leader sotto un simbolo graficamente primitivo? (Ieri la svastica, oggi la “z”… Un’auto-reductio ad Hitlerum fatta, paradossalmente, sotto le insegne del finto antinazismo).

In un discorso all’Assemblea federale del Parlamento, nel 2012, Putin citò la “passionarnost”, concetto teorizzato dall’antropologo sovietico Lev Gumilëv – finito nei gulag e liberato solo dopo la morte di Stalin – che riconobbe al popolo russo la capacità di… soffrire, sopportare, sacrificarsi (il termine evoca la passione di Cristo). È una sorta di furbata hegeliana con cui dare legittimazione “spirituale” a uno status quo socio-economico misero e profondamente iniquo: il coefficiente di Gini – e cioè il parametro che misura il tasso di disuguaglianza di un Paese – della Russia è fra i più alti al mondo, il PIL pro capite è un terzo di quello italiano.

La transizione repentina da un’economia pianificata a una “di mercato”, la cosiddetta terapia d’urto, fu di fatto un disastro, le privatizzazioni furono – per dirla col premio nobel Joseph Stiglitz – “bustarellizzazioni” e diedero vita a un sistema cleptocratico nel quale, per tornare a oggi, gli happy few ammortizzano le sanzioni dando fondo alle loro riserve di moneta e brindando con shampanskoe anziché champagne, se non addirittura stabilendosi in una suite a Dubai, facendo la spola col panfilo ormeggiato da quelle parti; i millennial piccolo-borghesi, invece, fanno la coda al freddo per l’ultimo Big Mac prima di ripiombare nel Novecento.

Putin tampona gli effetti delle sanzioni avvalendosi dello strapotere di cui gode in quanto dittatore: i Paesi ostili congelano le riserve in oro e valuta estera della banca centrale russa? Lui obbliga con efficacia retroattiva qualunque azienda venga pagata in dollari a convertire in rubli l’80% di quanto ricevuto; i cittadini vorrebbero convertire in valuta estera i depositi in rubli? Lui impone pesantissime limitazioni all’esportazione dei capitali; c’è una corsa agli sportelli anche solo per prelevare in rubli? Lui impone alla banca centrale di stampare moneta. Quanto a lungo può durare?

Il testamento di Litvinov e la bidimensionalità

Nel giugno del’46 Maksim Litvinov, figura centrale della diplomazia sovietica, appena prima di togliere il disturbo al ministero degli Esteri confessò al corrispondente della Cbs da Mosca che in Russia era tornata di moda «la concezione della sicurezza in termini di territorio: più se ne possiede più si è sicuri».

E come si “possiede” un territorio, cioè sostanzialmente uno Stato-nazione, oggi? Con l’Ungheria nel ’56 e la Cecoslovacchia nel ’68 l’Urss utilizzò l’hard power; prima della fiammata revanscista cui stiamo assistendo in questi giorni la Russia post-sovietica sperimentò il soft power di fattura euro-atlantica; ma i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale entrati nell’orbita dell’Unione europea giganteggiano su quelli della Comunità degli Stati Indipendenti, l’organizzazione internazionale sorta dalle ceneri dell’Urss, sia sul piano della crescita economica che su quello degli indicatori di sviluppo umano – per non citare diritti politici, libertà civili, propensione alla pace e interiorizzazione dell’importanza della libertà nel suo senso più ampio. L’espediente del soft power per controllare il suo estero vicino o, meglio, il suo lebensraum, e cioè il suo “spazio vitale”, ha fallito o comunque è troppo costoso sia in termini di tempo che di risorse: è il caso di tirar fuori l’artiglieria pesante.

A questo punto, non ce ne vogliano Lev Gumilëv e Aleksandr Dugin (del quale si dirà prossimamente), ma se proprio si vuole partecipare a questo gioco d’individuare una sorta di spirito hegeliano del popolo russo, una “russità” insomma, non si può non individuarla nella convinzione russissima che esista una sola bidimensionalità, quella che vede opporsi il superiore e l'inferiore; lo zar e i sudditi, il comitato centrale del partito e i proletari, gli oligarchi e il popolino; proiettandoci all'esterno, ci sono gli Stati vassalli che in quanto tali devono stare male o comunque non meglio della Grande Madre Russia e c’è, appunto, quest’ultima.

“L’alterità”, specie quella radicale dell’Occidente che poggia sulla classe media e sul pluralismo (e dunque propone un modello “orizzontale” anziché rigidamente verticale), è una minaccia, perché rischia di strutturarsi a sua volta in una gerarchia nella quale la Grande Madre Russia starebbe giù: perciò la fuga a ovest dell'Ucraina ha allarmato Putin, perciò la sua politica estera è permeata di paura e paranoia (certo: paura e paranoia ci sarebbe da averne più con l’alleato cinese che col nemico occidentale, ma tant’è, siamo nella sfera dell’irrazionalità).