si no grande

Intendiamoci subito su una cosa: tra chi sostiene il "Sì" (o chi non è ancora convinto dal "No") ci sono persone che conoscono la materia o che non possono seriamente essere accusate di partigianeria, di malafede o di antiparlamentarismo. E viceversa, nel campo del "No" si trovano anche strani compagni di viaggio a difesa delle istituzioni democratiche.

Perciò se qualcuno vuole farne una guerra di religione contro gli originari promotori della riforma (il Movimento Cinque Stelle e la sua folle idea di "democrazia diretta") sta polemicamente sbagliando bersaglio, e forse ha pochi argomenti seri in testa.
Come ho già detto, non si può escludere a priori che abbia ragione chi vota "Sì", scommettendo sul fatto che il Parlamento non potrà essere peggiore di com'è oggi. Il fatto è che a me non sembra solo ampiamente possibile peggiorare, ma del tutto probabile.

Non entro nel merito del confronto tra eletti ed elettori con gli altri Paesi (che hanno spesso leggi elettorali, istituzioni e forme di Stato diverse dalle nostre), né sul risparmio che se ne otterrebbe (pari a poco meno di 37 minuti in un anno di spesa pubblica). Sono argomenti buoni per una conversazione al bar (di un circolo sociale, non alla buvette di Montecitorio) ed è un peccato che spesso vengano citati da costituzionalistieconomisti e intellettuali, che difendono la riforma.

Resta però un fatto, impossibile da trascurare: nessuno tra coloro che voteranno a favore pensa che ci si possa fermare a questo "ritocco".

Tutti citano la necessità di ulteriori riforme, anche se non tutti concordano sulla priorità e sul numero di ritocchi necessari: i regolamenti parlamentari, il bicameralismo perfetto, la legge elettorale, la composizione dell'elettorato attivo e passivo, il numero di delegati regionali per l'elezione del Presidente della Repubblica...

Questo, che apparentemente è un dettaglio anche per molti nel Partito Democratico e tra i costituzionalisti, è invece un motivo serio per ritenere che una riforma fatta un po' per volta, "a spizzichi e bocconi", sia la strada peggiore per intervenire sul funzionamento di una democrazia.

Ovviamente la riforma dei regolamenti di Camera e Senato e la legge elettorale possono essere modificati più facilmente della Costituzione, che entra in gioco su vari altri punti (bicameralismo perfetto, l'elettorato attivo e passivo per il Senato, i delegati regionali per l'elezione del Presidente della Repubblica).

E tuttavia bisogna anche dire che, come per la riduzione del numero di parlamentari, da molti anni si parla di modifiche ai regolamenti parlamentari: alla Camera sono stati riformati l'ultima volta nel 1997, al Senato con una riforma organica nel 2017. Evidentemente, se dopo pochi anni si deve tornare ad aggiornarli, il problema sta nel modo in cui ci si mette mano.

Esattamente come la legge elettorale, anche i regolamenti parlamentari spesso sono scritti sulla base delle necessità contingenti: cioè - tra le altre cose - sul numero di partiti rappresentati in Parlamento, sul rapporto di forza (o di debolezza) che la maggioranza del momento ha nei confronti del governo e dell'opposizione, sul clima politico di collaborazione o scontro che vive il Paese (e che viene riflesso dal comportamento degli eletti in aula e nelle Commissioni).

C'è quindi da dubitare che ottenuto il "Sì" il Parlamento riesca a compiere, da qui alla fine della legislatura (che nessuno può prevedere quando sarà) riforme che sarebbero state utili e necessarie fin dal momento della sua elezione: oltretutto nel mezzo di un autunno che sarà complicato da molti fattori di incertezza e motivi di scontro, anche nella maggioranza di governo.

Se questo vale per dei provvedimenti tutto sommato ordinari, figuriamoci se si può credere che le riforme di rango costituzionale necessarie facciano in tempo a vedere la luce prima della prossima legislatura!
Anche perché, ammesso che si riescano ad approvare, si tratterebbe di provvedimenti estremamente precisi e puntuali, difficili da spiegare agli elettori, e che se venissero bocciati in successivi referendum ci lascerebbero con in mano risultati istituzionali che nessuno oggi vorrebbe vedere realizzati.

In pratica, se per qualsiasi motivo ci dovessimo fermare a questa riforma, più che davanti a un taglio del numero dei Parlamentari ci troveremmo con un'amputazione del Parlamento e del suo ruolo.

Questo è il motivo per cui le riforme costituzionali di Berlusconi e Renzi, per criticabili che fossero, includevano la diminuzione degli eletti ma la inquadravano in un cambiamento complessivo: non si può procedere con la continua richiesta di modifiche puntuali alla Costituzione, che prendono tempo per essere discusse e approvate, e che non possono essere slegate da altre riforme per garantire continuità nel funzionamento della democrazia.

Un'ultima osservazione, ancora sulla scelta di difendere una riforma costituzionale così limitata. Ci siamo ormai abituati a votare sui cambiamenti costituzionali, perché negli ultimi vent'anni sono stati (incluso il prossimo) quattro i quesiti referendari: quasi uno per ogni legislatura. Ma sono stati appunto gli unici quattro quesiti referendari costituzionali della nostra storia! Fino al 2001, tutte le modifiche sono state effettuate senza passare per l'approvazione popolare.

Sarebbe assai sorprendente, per chi sostiene che il risparmio che se ne ottiene sia un argomento valido, che si debbano organizzare altri referendum (ognuno dei quali costa circa 200 milioni di euro) per proseguire con le riforme necessarie.
Ma a proposito di referendum costituzionali, come sono andati i tre quesiti precedenti?

Si fa presto a dirlo: solo uno è stato approvato, la famigerata riforma del Titolo V della Costituzione , che ha introdotto diverse novità sul rapporto tra Stato e Regioni. Oggi, quasi vent'anni dopo, non c'è praticamente nessuno che sia soddisfatto di quella modifica, voluta dal Parlamento e confermata dai cittadini. Speriamo tra qualche tempo di non trovarci a considerare un nuovo errore il voto che si svolgerà a settembre.