scheda referendum grande

La riforma costituzionale sulla quale gli elettori saranno chiamati a esprimersi i prossimi 20 e 21 settembre è la prova plastica della bancarotta politico-civile del nostro Paese: lo è nella sua gestazione, col Partito Democratico – roccaforte antipopulista (?) che avrebbe dovuto “romanizzare i barbari”… salvo poi collocarsi in un ruolo ancillare rispetto agli stessi – che boccia il taglio cosiddetto dai banchi dell’opposizione e lo approva da quelli della maggioranza, così dimostrando di includere la Costituzione nel novero della “merce” negoziabile quando c’è da intavolare una trattativa; lo è, ovviamente, nel merito, nella sua irrazionalità se non perfino demenzialità funzionale… che è razionalità pura in termini di marketing politico-elettorale (le “cesoie”, icona dell’oltranzismo antiparlamentarista del primo grillismo, si sono fatte revisione costituzionale giusto oggi che i pentastellati si sono stabilizzati in Parlamento e perfino al governo nelle vesti di contro-democristiani).

Ma la cosiddetta riforma è prova della bancarotta di cui dicevo soprattutto quale oggetto di una campagna per il “Sì” che non è la solita televendita di materassi e reti ortopediche solo nei bassi fondi della propaganda partitica – mediatizzazione e conseguente iper-semplificazione del messaggio hanno cettoqualunquizzato il discorso pubblico ormai da un pezzo e trasversalmente –, ma che risulta de-politicizzata e, quel che è più grave, in una certa misura de-giuridicizzata anche “ai piani alti”, dove si assiste al giganteggiare dell’aritmetica: oggi c’è un parlamentare ogni 63 900 abitanti, se la riforma verrà approvata dagli elettori ce ne sarà uno ogni 100 666, in linea con la media europea e il numero di deputati, 400, sarebbe vicinissimo alla radice cubica del numero degli abitanti: si tratterebbe della cifra ideale, in linea con la (per l’appunto) “legge della radice cubica” teorizzata dal politologo/fisico estone Rein Taagepera…

Questa “matematizzazione” del dibattito ne tradisce la superficialità. “Ai piani bassi”, come si è accennato, imperversano i conti della serva sui risparmi potenzialmente ottenuti nell’immediato ed eventualmente a regime, come se la democrazia rappresentativa fosse una voce di spesa da ridimensionare o, nella peggiore della ipotesi, da depennare (magari a vantaggio di una e-democracy diretta e a costo zero, come nella distopia primo-grillina di Casaleggio sr, con “cittadini-utenti totali” chiamati a esprimersi quotidianamente su scelte politico-amministrative, un po’ come avviare ogni giorno la barra delle “storie” su Instagram ed essere sottoposti a una sequela di sondaggi-referendum… chi skippa si astiene) e come se le briciole eventualmente risparmiate possano mai avere una qualche rilevanza economico-finanziaria, specie a fronte dei costi delle politiche economiche stataliste/assistenzialiste poste in essere prima dal fronte nazionalpopulista, cioè quello giallo-verde, e ora da quello giallo-rosso.

“Ai piani alti”, invece, ci si focalizza appunto sui numeri ignorando dolosamente gli effetti sistemici di un intervento non organico – una sforbiciata finalizzata solo all’esibizione catartica su pubblica piazza delle “poltrone” venute meno – e le specificità del nostro sistema politico-istituzionale, le situazioni patologiche che ne compromettono l’efficienza sin dalla culla e che richiedono “terapie” assai meglio strutturate del taglio lineare praticato, come si accennava, con le ancor oggi affilate cesoie dell’antiparlamentarismo pentastellato.

A tal proposito, si sottolinei en passant che il pacchetto con cui il M5S ha proposto questa legge prevedeva anche l'introduzione del referendum propositivo (senza quorum) e del vincolo di mandato, entrambi istituti che "extra-parlamentarizzerebbero" il potere legislativo; queste “appendici” sono state per l’intanto messe in salamoia, ma non è detto che il M5S accantoni l’obbiettivo di realizzare la propria ragione sociale originaria, e cioè l’umiliazione del Parlamento, appena prima che la bolla del grillismo esploda definitivamente.

Tornando al punto, questa “anti-riforma” – la si chiami così forse non proprio sine ira et studio – non solo blinderebbe il bicameralismo paritario, ma si presenta come prodromica a una completa omogeneizzazione delle due Camere. Per ovviare alla sottorappresentazione di alcune regioni in un Senato “mutilato” e, più generalmente, delle aree interne del Paese in tutto il Parlamento, due effetti collaterali inevitabili del “taglio”, il pacchetto di correttivi post-referendari di cui tanto si parla prevede l’elezione al Senato su base circoscrizionale (non più regionale: a oggi l’ambito d’elezione dei senatori rappresenta quantomeno una forma di “quasi-territorializzazione” …) e l’abbassamento dell’età-soglia per l’acquisizione di elettorato attivo e passivo a, rispettivamente, 18 e 25 anni, esattamente come per la Camera.

Mentre la modernizzazione del nostro sistema politico-istituzionale non può prescindere dal superamento del bicameralismo paritario – praticamente un unicum al mondo –, noi ci avviamo verso la radicalizzazione dello stesso in un, come chiamarlo?, “bicameralismo assoluto”. Quella di “parlamentarizzare” il raccordo tra centro e periferia è un’esigenza avvertita sin dall’indomani dell’approvazione della Costituzione (di questo avviso erano, in particolare, Meuccio Ruini e Costantino Mortati): da un lato si razionalizzerebbero quelle tensioni e qui conflitti che a oggi vengono tutti dirottati alla Corte costituzionale e si sottoporrebbe l’armonizzazione degli interessi locali e nazionali ai doveri di pubblicità della seduta tipici di una Camera parlamentare (quel che oggi non avviene nel “sistema delle conferenze”); dall’altro si caratterizzerebbe la “Camera bassa” per un ruolo più propriamente politico – con quel che l’introduzione della “fiducia monocamerale” apporterebbe in termini di efficienza e governabilità.

Ma, realisticamente, qualunque considerazione di carattere tecnico-giuridico si possa fare a proposito del testo sul quale ci apprestiamo a esprimerci alle urne – sono state già più volte elencate, anche su questa testata, tutte le criticità che si paleserebbero all’indomani dell’approvazione – è destinata a incontrare l’indifferenza dei più perché, lo si ribadisca, tanto il testo della revisione quanto le argomentazioni di cui il “cartello del Sì” si sta avvalendo per sponsorizzarla non sono che prove plastiche della bancarotta politico-civile del nostro Paese; chi vi si oppone viene per direttissima squalificato dai professionisti del populismo come guardiano dello status quo o della “casta” e dagli ex professionisti dell’antipopulismo (ammorbiditisi perché il Pd avrebbe “liberalizzato” i pentastellati) come benaltrista inconsapevole che a volte «il bene è nemico del meglio»: ma come del “bene” in questa revisione costituzionale non v’è traccia, non si capisce neppure quale sia “il meglio”.

@AlexMinissale