Il PD, il No al referendum e il No a Conte e Di Maio
Istituzioni ed economia
Il travaglio del PD sul referendum costituzionale non è solo il segno di una litigiosità interna endemica, ampiamente residuata alla deposizione del mal tollerato “usurpatore”, cioè di Renzi.
È anche un segno di disagio, e quindi di serietà, in una politica in cui l’assenza di inibizioni e di imbarazzi e l’uso programmatico della contraddizione, del dire e del contraddirsi, ha cessato da tempo di rappresentare un limite ed è diventato un mezzo delle strategie di consenso.
Peraltro – ma sarebbe discorso lungo, che vale solo la pena di accennare – il superamento del principio di non contraddizione è sempre funzionale all’affermazione di un’idea del potere “totale”, che non patisce, ma assorbe ogni contraddizione, rivoltandola in una paradossale coerenza (si pensi agli orwelliani: la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza di 1984).
Dunque un PD imbarazzato, guidato da un segretario ancora più imbarazzato dalle contraddizioni sul taglio dei parlamentari è un partito che certifica, per una volta in positivo, senza iattanza e complessi di superiorità, la propria positiva diversità. Non è vero che il PD è come il M5S e proprio questo lo dimostra. Ma è anche vero che il PD dell’esperienza giallorossa è destinato a stare sotto scacco del M5S e proprio l’imbarazzante situazione in cui si trova a pochi giorni da voto ne certifica la strutturale e inemendabile subalternità.
Il 7 settembre ci sarà la Direzione del PD sul referendum. Too little, too late. Non ha più senso che il PD parli della scelta di ieri, per giustificare la contraddizione con la scelta dell'altro ieri. E visto che non potrà ricontraddirsi – e schierarsi per il NO oggi, diversamente da ieri, ma come l'altro ieri – sarebbe utile che la discussione interna prendesse semplicemente atto dell’irreparabilità della scelta, che ha portato a quel voto vergognosamente unanime del Parlamento (553 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti), guardando al domani – al dopo referendum, al dopo regionali, al dopo Conte – con l’impegno di lavorare fuori e non dentro la trappola “patriotticamente” confezionata dal premier e da Di Maio al PD: di salvare l’Italia da Salvini il minuto dopo essere stati scaricati da lui.
Il PD non potrà scegliere il NO al referendum perché ragionevolmente non può andare a perdere pure il referendum, dopo avere comunque già perso la faccia sul taglio dei parlamentari. Ma potrà scegliere di evitare di fare di quella alleanza con il M5S, di cui la mutilazione della Costituzione è una sorta di oscena legittimazione battesimale, la prospettiva politica dell’Italia progressista. Di questo sarebbe bene che il PD iniziasse a parlare nella prossima Direzione, non delle tracce che nei sacri testi della sinistra legittimano, ex post, il talebanismo dell’antipolitica.