zingaretti conte di maio grande

È più grave subire una sconfitta o sprecare una vittoria? Soprattutto quando la vittoria è di quelle che incidono nella storia del Paese? È scontato che i prosseneti di Matteo Salvini, che spopolano nei talk show, si scervellino in arzigogoli sui flussi elettorali per ridimensionare la sconfitta subita dal Capitano e dal centro destra in Emilia Romagna, il 26 gennaio (la giornata che, a dire di Roberto Calderoli, sarebbe dovuta assurgere nel novero delle festività nazionali dopo la ‘’liberazione’’ della regione rossa).

È la stessa dimensione che avrebbe avuto la sconfitta di Bonaccini a testimoniare, di converso, l’importanza della vittoria. Finirà che la responsabilità sarà caricata sulle spalle di Lucia Borgonzoni (della quale tutti ormai sottolineano l’inadeguatezza), anche se la candidata si è vista esautorare dal Capitano durante la campagna elettorale. Ma del resto, da sola non avrebbe fatto meglio, perché dal nulla non nasce nulla. Ma ci sarebbero molte cose da dire sull’atteggiamento del premier e dello stesso Pd. Conte e Zingaretti usufruiscono di una vittoria di cui non hanno alcun titolo per rivendicarne il merito, perché sia il governo, sia il Pd più che vantaggi hanno arrecato dei danni alla causa di Bonaccini, tanto da essere accuratamente tenuti ai margini della competizione.

Ora, però, pur non avendo fatto nulla per guadagnarsela ed essendosela trovata offerta su di un piatto d’argento, il gruppo dirigente dem rischia di sprecare la vittoria (di Bonaccini) in Emilia Romagna. Il PD intende investire quel capitale, che si trovato depositato nel suo conto corrente politico, nel consolidamento dell'asse con il M5S (in vista delle prossime regionali). Insomma il modello Conte 2, con rapporti di forza rovesciati tra PD e M5S, da espediente di emergenza (per evitare che il ricorso ad elezioni politiche anticipate dopo la crisi di agosto si traducesse in un successo di Salvini) potrebbe diventare prospettiva strategica. Ciò vuol dire che la convergenza con il M5S, fallita in Emilia Romagna, verrebbe tentata nelle prossime elezioni regionali?

I ‘’grillini’’ potrebbero essere tentati di accasarsi, ma se il Pd accettasse compirebbe un gravissimo errore. Non è un caso (per lui il rifiuto dei pentastellati è stato un colpo di fortuna) Bonaccini ha vinto senza portarsi appresso il M5S. Limitiamoci all’ ipotesi che alle elezioni regionali i due alleati di Roma vadano ognuno per suo conto (in fondo è stato così anche durante il regime giallo-verde) e che la fase 2 riguardi soltanto la maggioranza e il governo. Sarà in grado il Pd di ottenere dall’alleato una sconfessione piena delle sue posizioni? O andranno trovati dei compromessi in nome del male minore? E se sarà così come saranno questi compromessi (per niente scontati) sui tanti problemi aperti?

Partiamo dal nodo gordiano della sospensione della prescrizione. Il ministro Bonafede – che nel frattempo è diventato capo della delegazione ‘’grillina’’ nell’esecutivo – non intende rinunciare a quella che lui definisce una ‘’battaglia di civiltà’’ (leggi: tenere sotto processo una persona per tutta la vita). E’ arrivato al punto di farsi criticare dalla ANM (sua alleata sul tema della prescrizione) per la pretesa di stabilire dei tempi entro i quali deve arrivare a termine ogni grado di giudizio, comminando sanzioni per quei magistrati che, per dolo o colpa grave, non siano in grado di rispettare le scadenze. Che poi, a pensarci bene, sarebbe come una prescrizione invertita. Il Pd si accontenterebbe di distinguere tra chi è assolto in primo grado (per il quale correrebbe la prescrizione) e chi invece viene condannato (che continuerebbe a portare sulle spalle la sua croce). Anche ammesso che sia questa la soluzione di compromesso, come la giudicherebbe l’elettorato della gauche quando si andrà a votare? È vero che nelle sue vene scorre ancora tanto giustizialismo, ma l’idea di una prescrizione doubleface è irrimediabilmente balzana.

Poi ci sono le grandi crisi aziendali, a partire dall’ex Ilva ed arrivando all’Alitalia. Il Pd si è assunto in queste vertenze la corresponsabilità della precedente gestione e adesso, tutti e due insieme, non sanno che pesci pigliare. Il negoziato con Arcelor Mittal è passato in clandestinità (per fortuna sono subentrati i collaboratori di Roberto Gualtieri), mentre per la ex compagnia di bandiera i ‘’grillini’’ non nascondono l’idea di ‘’nazionalizzarla’’ (del resto, l’azienda continua a comperare il carburante e a pagare gli stipendi grazie ai ripetuti prestiti del bilancio pubblico).

Dagli ‘’antri muscosi e dai fori cadenti’’ ha battuto un colpo anche LeU. Divenuto portavoce di Maurizio Landini il partito di Bersani e D’Alema manifesta un’incolmabile nostalgia per il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: il che ha riacceso la fiammella dell’anima ‘’laburista’’ del Pd (e di un evergreen come Cesare Damiano). Basterà un cenno per convincere il M5S a smontare l’odiato jobs act. Come se non bastasse, tra il ministro Nunzia Catalfo e le confederazioni sindacali è iniziato (altro che cronoprogramma!) un negoziato sulle pensioni con l’obiettivo esplicito di modificare radicalmente la riforma Fornero. Governo e sindacati hanno apparecchiato più tavoli (tecnici) di un grande ristorante e sembrano intenzionati a tirare diritto e a non curarsi degli oneri che saranno necessari.

Poi è sempre aperta la questione delle concessioni autostradali (il caso Atlantia): il M5S rivendica di esibire lo scalpo dei Benetton, mentre il ministro Paola De Micheli temporeggia: un giorno agita la clava, l’indomani la ripone nel cassetto. Tirando le somme, non è facile stabilire quale sia la scelta migliore (o peggiore, secondo i punti di vista) per il Paese. Se l’alleanza strategica Pd-M5S dovesse consolidarsi lungo quella sequela di compromessi, che abbiamo ipotizzato, si formerebbe, a sostegno del governo, un polo populista di sinistra (disposto a concedere tutto ai sindacati per ottenere almeno la loro neutralità) contrapposto a quello di destra, a rimorchio del Capitano (Berlusconi si illude di essere resuscitato).

Eppure, Stefano Bonaccini ha vinto a capo di una coalizione composta, magari in forme diverse, dalle forze del riformismo centrista (+Europa, Iv, Azione che in Emilia Romagna hanno ‘’donato il sangue’’ al Pd). A saperla coltivare, per i dem, questa potrebbe diventare una prospettiva solida, un’alternativa migliore. Anche in vista di eventuali elezioni anticipate. Il fatto è che anche le forze innovative dovrebbero mandare un segnale della loro presenza nella nebbia.