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La Costituzione prevede all’articolo 116 che lo Stato possa devolvere alle Regioni alcune competenze legislative, tra un elenco di 23 materie (il grosso delle quali oggi è competenza “concorrente” tra Stato e Regioni, previste all’articolo 117). La ratio di fondo è che alcune di queste competenze possono essere regionalizzate, non certo tutte in blocco. Il costituente aveva in mente il principio di sussidiarietà, non la secessione.

Tra queste materie ce ne sono alcune - come la produzione o la distribuzione di energia, le grandi reti infrastrutturali, il commercio estero, le politiche attive del lavoro - che andrebbero semmai riportate completamente allo Stato, perché la frammentazione regionale rende inefficiente se non impossibile una loro gestione adeguata. Fu un errore della riforma costituzionale del 2001, fatta da un centrosinistra che provava a inseguire la Lega bossiana, abbondare di competenze concorrenti in ambiti dalla natura quanto meno europea come energia, trasporti, lavoro.

Ora, nel 2019 quasi 2020, vogliamo davvero dare alle Regioni la gestione esclusiva di queste materie? Vogliamo che sia una sola Regione a decidere se fare o meno la Tav, la Tap, etc? Abbiamo bisogno di guarire dalla sindrome Nimby, non di farcene una dose in vena.
Ci sono competenze che certamente possono essere oggetto di devoluzione (es. governo del territorio, misure di sviluppo per le pmi, valorizzazione dei beni culturali e ambientali), per il “semplice” principio di sussidiarietà. Ma è opportuno che la devoluzione di alcune materie alle Regioni non produca 1€ di spesa pubblica in più per i contribuenti italiani. L’autonomia dovrebbe aiutare a risparmiare, non a spendere di più. Secondo il Dipartimento Affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio, le bozze di intesa con le regioni non hanno al momento questa garanzia.

Un’attribuzione di competenze autenticamente federale dovrebbe prevedere la totale autonomia delle regioni nella raccolta delle entrate fiscali necessarie a finanziare quelle competenze (dunque imposte proprio regionali, non solo trasferimenti dallo Stato). Dovrebbe anche esserci l’accettazione del rischio di fallimento e di default, come gli stati americani. Se invece le Regioni vogliono diventare dei mini-Stati ma con le tasse raccolte dallo Stato italiano, diventerebbero dei semplici centri di spesa. Lo Stato tassa e la Regione spende, senza trasparenza e reale controllo democratico. Questo proposto oggi non è dunque vero federalismo, ma semplice gestione cassa. Comodo così... Diciamo invece: viva il vero federalismo (anche municipale), se siamo coraggiosi facciamolo!

C’è ovviamente un fattore propagandistico e politicista che finora ha prevalso sulla realtà: qui non si parla di efficienza e competitività della Repubblica Italiana, ma del tentativo della Lega di consolidare al Nord la sua immagine di partito nordista e secessionista, che come vestito buono della domenica usa le autonomie. L’errore compiuto dalle opposizioni è quello di aver prima assecondato in modo acritico la richiesta referendaria di autonomia (tutti a votare sì, PD incluso, per “dare un segnale”!), e ora di non uscire dalla trappola della contrapposizione Nord-Sud. Non c’è da difendere “il Sud” opponendosi genericamente all’autonomia, ma l’efficienza dello Stato e soprattutto il diritto di ogni cittadino italiano - dovunque viva - a godere delle stesse libertà, diritti e prerogative.

Le classi politiche meridionali devono assumersi una nuova responsabiità: se non s’inverte la rotta e si amministra secondo standard di trasparenza ed efficienza europei, non ci sarà nessuna possibile rivendicazione di equità e di perequazione. Se vogliamo dire No al secessionismo, dobbiamo dire No al neo-borbonismo auto-assolutorio.